Un uomo di fede che trasformò l’orrore del campo di concentramento in un atto d’amore estremo: Offrì la propria vita per salvare quella di un altro, diventando simbolo universale di carità e speranza
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«Non dimenticate l’amore». Queste furono le parole di Padre Massimiliano Maria Kolbe, monaco francescano, ai religiosi costretti a lasciare il centro di Niepokalanów, dopo l’occupazione nazista della Polonia, il 1° settembre 1939.
Una frase destinata ad accompagnarlo fino alla morte. Dopo una lunga esperienza di fede, di carità e di sacrificio per il prossimo — tra la Polonia e il Giappone — e dopo la costruzione di Niepokalanów, un grande centro di accoglienza per malati, orfani e poveri, Padre Kolbe venne arrestato dai nazisti. Il 28 maggio 1941 fu deportato nel campo di concentramento di Auschwitz, insieme ad altri frati francescani. Lì gli venne assegnato il numero di matricola 16670.
Un sacerdote cattolico, spogliato del suo saio francescano e rivestito della divisa a righe dei prigionieri, costretto ai lavori più duri — in particolare, al trasporto dei cadaveri verso il crematorio.
Un luogo dove ogni cosa sembrava perdersi, anche la fede e la dignità di credere. Un giorno, mentre la morte sceglieva a caso qualche corpo gracile e martoriato, Padre Kolbe compì un gesto semplice, ma destinato alla storia: offrì la propria vita al posto di un padre di famiglia. Un sacerdote cattolico che si dona per salvare un uomo, un padre che ancora sperava di riabbracciare i suoi figli.
Dopo quattordici giorni di prigionia, trascorsi tra preghiere e digiuno forzato nel bunker della fame, Padre Kolbe morì il 14 agosto 1941, ucciso con un’iniezione di acido fenico. Prima di morire, porse il braccio al carceriere e mormorò: «Ave Maria». Furono le sue ultime parole, il suo ultimo atto d’amore verso la Vergine Maria.
Padre Kolbe non dimenticò l’amore neanche di fronte all’orrore nazista. Scelse la solidarietà, la speranza, la salvezza dell’altro, anche nel cuore dell’inferno. Il 10 ottobre 1982, in Piazza San Pietro, Giovanni Paolo II lo proclamò Santo, affermando: «San Massimiliano non morì, ma diede la vita».

