Secondo Eurostat, la produttività del lavoro nel nostro Paese (Pil per ora lavorata) è cresciuta appena del 4,2% in 20 anni, contro il 20,8% della media Ue e il 30,7% della Germania. L’opportunità sprecata del Pnrr
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«Senza imprese forti, non c’è lavoro stabile. E senza lavoro stabile, non c’è coesione sociale né crescita duratura». (Federico Visentin, Presidente Federmeccanica).
Il tessuto produttivo italiano: piccolo, frammentato e sotto pressione
Il cuore dell’economia italiana è costituito da piccole e medie imprese (Pmi): secondo i dati Istat 2024, il 95% delle aziende italiane ha meno di 10 dipendenti. Questo micro-capitalismo diffuso, se da un lato rappresenta una risorsa in termini di resilienza e radicamento territoriale, dall’altro limita fortemente gli investimenti in innovazione e digitalizzazione; la capacità di internazionalizzarsi; l’accesso al credito bancario e ai capitali privati.
La Germania, in confronto, ha favorito negli ultimi vent’anni una forte aggregazione tra imprese, reti di filiera, cooperazione con i Länder e partnership tra imprese e università. In Italia, le “reti d’impresa” sono ancora un fenomeno marginale e poco sostenuto dallo Stato.
Una produttività stagnante
Secondo Eurostat, la produttività del lavoro in Italia (Pil per ora lavorata) è cresciuta appena del 4,2% in 20 anni, contro il 20,8% della media Ue e il 30,7% della Germania. Questo significa che il sistema produttivo italiano è rimasto pressoché fermo, mentre gli altri Paesi hanno innovato, investito, digitalizzato.
Le ragioni sono molteplici come la scarsità di ricerca e sviluppo (R&S): solo lo 0,6% del PIL privato, contro l’1,3% tedesco; la bassa alfabetizzazione digitale della forza lavoro; un sistema burocratico e normativo farraginoso che frena le iniziative.
Salari reali in caduta
Il nodo più drammatico resta quello dei salari. L’Italia è, insieme alla Grecia, l’unico Paese dell’Eurozona dove i salari reali sono scesi rispetto al 1990. Secondo l’Ocse (report 2024), il potere d’acquisto di un lavoratore medio italiano è calato del 2,9% nell’ultimo decennio.
Confronto tra retribuzioni medie nette annuali (dati OCSE 2023):
- Paese Salario medio netto annuo
- Germania euro 31.500
- Francia euro 29.800
- Spagna euro 24.400
- Italia euro 23.000
- Polonia euro 18.900
I salari bassi hanno conseguenze gravi: spingono i giovani verso l’estero; alimentano il precariato e l’instabilità; riducono i consumi interni; rendono poco attrattivo l’impiego regolare rispetto a forme di lavoro nero o grigio.
Una contrattazione da riformare
Il sistema italiano si basa su contratti collettivi nazionali spesso poco aggiornati e privi di reale efficacia locale. Il Cnel ne ha censiti oltre 900, di cui solo una parte firmati da sigle rappresentative. La contrattazione di secondo livello è poco diffusa, specie nelle Pmi, e non premia la produttività o le competenze.
In Paesi come la Danimarca o l’Olanda, il sistema contrattuale è più snello e flessibile, con forti incentivi al dialogo sociale locale, alla formazione continua, e al welfare contrattuale (sanità integrativa, previdenza, conciliazione famiglia-lavoro).
Un cantiere aperto (ma fermo): le riforme mancate
Il Pnrr prevedeva una riforma del mercato del lavoro fondata su rafforzamento delle politiche attive; rilancio dei centri per l’impiego; introduzione del “Sistema duale” scuola-lavoro; maggiore raccordo tra offerta e domanda.
A oggi, molti di questi interventi sono ancora in fase sperimentale o ostacolati da competenze frammentate tra Stato e Regioni, carenza di personale nei centri per l’impiego e una gestione a macchia di leopardo sul territorio.