Il presidente Usa ha gettato la maschera: non vuole solo accordi commerciali, ma sottomissione politica. La sua lettera all’Ue è una pistola sul tavolo. E mentre Meloni balbetta, Salvini applaude e la Germania volta le spalle, il rischio è un boomerang da 35 miliardi per l’Italia. Il Parmigiano a 50 euro e l’export a picco
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Donald Trump non gioca a scacchi. Non gioca nemmeno a dama. Gioca a poker truccato, e pretende che l’Europa gli faccia da tappetino. Quando il commissario Maros Sefcovic cercava ancora di sbrogliare il nodo commerciale con gli emissari della Casa Bianca, il tycoon di Mar-a-Lago ha deciso che era ora di scoprirsi: 30% di dazi sull’export europeo. O fate come dico io, o vi scuoio vivi.
Altro che negoziato, altro che diplomazia. Il messaggio è chiarissimo: Trump vuole la resa, non l’accordo. E la pistola poggiata sul tavolo è una lettera vergata con l’eleganza di una minaccia mafiosa: o reagite, e vi distruggiamo; o vi piegate, e magari vi lasciamo il piacere di vendere ancora un po’ di Chianti ai ristoranti di Boston. Altrimenti stop, ci beviamo la Coca Cola.
La reazione europea? Uno spettacolo imbarazzante. Da un lato Emmanuel Macron, che alza il sopracciglio come se fosse in una pièce di Molière. Dall’altro Friedrich Merz, che molla Giorgia Meloni al suo destino, con un comunicato talmente freddo da far sembrare Palazzo Chigi un condominio sotto sfratto. E poi lei, la premier italiana, che di fronte alla mazzata trumpiana si finge morta e sforna il solito comunicato neutro come un brodino allungato.
E poi c’è Matteo Salvini, così inginocchiato al verbo di Donald da fare quasi tenerezza, che applaude entusiasta il suo mito americano, come se i dazi non colpissero proprio – e con violenza devastante - quelle aziende del Nord che lui dovrebbe difendere. Invece niente: pur di alzare il suo peana a Trump, il Capitano è disposto a barattare anche la mozzarella di bufala. Tutta colpa dell’Europa, tuona. Ma forse, quando torna a casa, non ci crede neppure lui.
E le opposizioni? Inutili come un ombrello bucato in un uragano. Urlano e strepitano, ben contenti in cuor loro di non essere al posto di Giorgia a affrontare un problema che, in ogni caso, porterà solo dei danni alla popolazione e all’industria italiana. Con relative rogne a livello politico, sia in Europa che a Palazzo Chigi.
Il vero disastro è infatti quello industriale. Secondo i calcoli degli artigiani di Mestre, quei 30 punti percentuali in più potrebbero ridurre di 35 miliardi le esportazioni italiane verso gli Usa. A essere massacrati sarebbero proprio i settori che ci rendono orgogliosi nel mondo: vino, occhialeria, farmaceutica, arredamento, moda, alimentare. Il Parmigiano Reggiano, che già oggi sconta dazi salati, arriverebbe a costare 50 euro al chilo negli States. Più che un formaggio, una reliquia.
E il problema è più grave di quanto sembri. Le esportazioni verso gli Stati Uniti, nei primi cinque mesi dell’anno, hanno generato il 90% del surplus commerciale italiano. In pratica, se Trump chiude il rubinetto, ci asciughiamo in poche settimane. E i danni non sono astratti: il rischio è una recessione tecnica, con la crescita che cala di mezzo punto e un’occupazione che si accartoccia come una camicia stirata male.
Joseph Stiglitz, Nobel per l’Economia, l’ha detto chiaro: “Trump non agisce per logica economica. Agisce come un bullo. Se può, userà il potere militare. Ma intanto strangola l’Europa con i dazi”. Secondo lui, l’unica reazione possibile è la linea dura: tassare le aziende americane, rispondere colpo su colpo. Ma per farlo servirebbe un’Unione Europea che non passi le giornate a decidere chi deve parlare per primo e chi può fare la foto con chi.
Nel frattempo, la Meloni continua a invocare “relazioni speciali” con un uomo che la tratta come uno zerbino. E Ursula von der Leyen – che già col ramino diplomatico ci ha perso la faccia – si aggira tra Bruxelles e Berlino in cerca di una risposta comune. Risposta che, al momento, non c’è. Al massimo, qualche telefonata notturna tra Macron, Tusk, Sanchez, Starmer e, se c’è tempo, la Meloni. Il gioco è sempre lo stesso: trovare qualcuno che faccia il cattivo al posto nostro.
Ma intanto Trump gode. Perché più l’Europa si divide, più lui guadagna. E se nel frattempo i mercati vacillano, tanto meglio: secondo Robert Engle, altro Nobel per l’Economia, Trump e i suoi amici si arricchiscono proprio sulle sorprese. Ogni tweet una speculazione, ogni dazio una mano di blackjack giocata a spese del mondo.
Il suo obiettivo? Non è proteggere l’economia americana, ma comandare quella globale. E il metodo è semplice: caos, intimidazione, ricatto. Come un gangster di Scorsese, ma con la valigetta diplomatica. Se la Casa Bianca fosse un bar di New Jersey, oggi vedremmo Ursula von der Leyen chiusa nel retro, con un dito puntato in faccia e una frase tipo “O paghi, o qui salta tutto”.
L’Europa ha una sola possibilità: smettere di fare la vittima e cominciare a ragionare come blocco economico. Unito, risoluto, capace di difendere i suoi interessi. Perché se si continua a rincorrere Trump scodinziolando come un cane da salotto sperando in una carezza, l’unica cosa che ci darà è un altro calcio.
E stavolta, n
on basterà aumentare il prezzo del Parmigiano per salvarci . Ci toccherà assaggiare l’amaro gusto della subalternità. E stavolta, nessuno potrà dire che non era scritto.