Senza domande e risposte, senza il rischio del contraddittorio, il potere diventa una voce sola. E se accettiamo il silenzio resterà solo la propaganda, che non è mai innocente: è sempre l’anticamera dell’autoritarismo
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«Io non voglio mai parlare con la stampa italiana». Una frase breve, secca, quasi gettata via. Ma nelle parole di Giorgia Meloni non c’è leggerezza, c’è un segnale. E i segnali vanno letti, interpretati, denunciati. Perché a volte il pericolo non arriva con un colpo di Stato, ma con una frase lasciata cadere nell’indifferenza generale. Lei del resto da qualche anno si rifiuta di parlare con i giornalisti nelle conferenze stampa.
Proviamo a immaginare se quella frase diventasse norma, consuetudine, prassi. Sindaci che parlano solo quando vogliono. Presidenti di Regione che dettano comunicati ma non accettano domande. Manager pubblici che si chiudono in un mutismo blindato. Un Paese in cui il potere non si espone, non si lascia interrogare, non risponde. Un Paese in cui la parola scende dall’alto, come un bollettino ufficiale, e non ammette replica.
Sarebbe la fine della democrazia come l’abbiamo conosciuta. Perché la democrazia non è solo il voto: è il diritto dei cittadini a sapere, a capire, a chiedere conto. È un dialogo continuo, spesso duro, talvolta scomodo. Ma necessario. Senza domande, senza risposte, senza il rischio del contraddittorio, il potere diventa una voce sola. E quando resta una sola voce, tutto il resto è silenzio.
Lo sapeva bene Thomas Jefferson, quando scriveva: «Preferirei giornali senza governo piuttosto che un governo senza giornali».
Non è una frase scolpita nei libri per rendere omaggio ai giornalisti, è una legge universale: la stampa è la garanzia che il potere non diventi cieco e muto, che non si rinchiuda in se stesso, che non diventi tirannia.
La storia è chiara: ogni regime autoritario nasce così, con piccoli gesti di fastidio verso le domande, con battute sprezzanti, con la stampa ridotta a megafono o a nemico. Non c’è bisogno di manganelli per imbavagliare: basta delegittimare, ridurre al silenzio, far credere che i giornalisti siano un disturbo e non una necessità democratica.
E allora, chi rifiuta le domande non sta respingendo la stampa: sta respingendo il popolo. Perché i cronisti non parlano per sé, ma per i cittadini.
Ogni volta che il potere, di qualunque colore esso sia, sceglie di non rispondere, sta scegliendo di non rendere conto a chi lo ha eletto.
Ecco perché la frase della presidente del Consiglio non è un dettaglio. È un campanello d’allarme. Non riguarda un rapporto personale con i cronisti: riguarda il futuro della trasparenza in Italia. Se accettiamo il silenzio, resterà solo la propaganda. E la propaganda, lo sappiamo, non è mai innocente: è sempre l’anticamera dell’autoritarismo.