La vergogna della Florida archiviata come un incubo: stop a nuovi ingressi e trasferimento dei detenuti. Intanto il Dipartimento di Stato avvia l’esame dei 55 milioni di stranieri con visto: una caccia alle streghe digitale per smontare il sogno americano pezzo dopo pezzo
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“Un luogo indegno di un Paese civile”. Così l’avevano definito le organizzazioni per i diritti umani. Adesso “Alligator Alcatraz”, il carcere per migranti irregolari voluto dal presidente Donald Trump in mezzo alle paludi della Florida, è arrivato al capolinea. La giudice federale Kathleen Williams ha ordinato la chiusura entro 60 giorni e bloccato ogni nuovo ingresso.
Il motivo ufficiale è ambientale – danni gravi e irreparabili alle Everglades – ma la verità è che quella prigione era una ferita aperta per l’immagine
degli Stati Uniti: una gabbia simbolica e concreta per mostrare i muscoli, più che per amministrare giustizia.
La struttura, circondata da acqua stagnante e alligatori, era stata concepita come deterrente spettacolare: “nessuna fuga possibile”, prometteva lo staff presidenziale all’inaugurazione, con Trump sorridente
davanti alle telecamere. Nella realtà, Alligator Alcatraz è diventato il manifesto della crudeltà: un set da spot elettorale più che un luogo di detenzione, con condizioni di vita denunciate come “inumane e degradanti”.
Ora la giudice mette la parola fine. Niente più ampliamenti, niente più ingressi. Una vittoria per ambientalisti e associazioni, che parlano di “giornata storica”. Ma anche un colpo bruciante per l’inquilino
della Casa Bianca, che si vede strappare di mano uno dei simboli della sua narrativa anti-migranti.
Eppure, chi pensa che il presidente molli la presa si illude. La prigione-spot chiude, certo, ma resta intatta la strategia che l’ha generata: repressione come spettacolo, crudeltà come propaganda. “La vergogna della Florida è archiviata — scrive il Guardian — in attesa di una nuova trovata ancora più crudele, ancora più illegale”.
E infatti la nuova frontiera della guerra di Trump agli stranieri è già servita: il Dipartimento di Stato ha avviato un maxi-esame su tutti i 55 milioni di immigrati che vivono negli Stati Uniti con un visto regolare. Non si tratta di un controllo di routine, ma di una gigantesca operazione di setaccio: ogni profilo social sarà passato al microscopio, ogni contatto verificato, ogni registro di polizia nei Paesi d’origine riesumato per trovare un appiglio utile a revocare i permessi ed espellere.
Un’operazione di massa, senza precedenti, che rischia di trasformare milioni di vite in bersagli facili. “Deportazioni e arresti” sono le parole chiave di una campagna feroce che ha già colpito con retate spettacolari e liste nere digitali. È l’ennesimo passo di una deriva in cui la sicurezza diventa sinonimo di sospetto, e il sogno americano un incubo burocratico.
La parabola è chiara: da una prigione tra gli alligatori al controllo totale delle esistenze online. Se Alligator Alcatraz era un monumento alla disumanità, il nuovo piano migratorio rischia di essere un regime di sorveglianza capillare. Non più solo muri e sbarre, ma password, like e messaggi privati come strumenti di esclusione.
“Bye bye sogno americano”, scrivono alcuni commentatori: al posto della promessa di libertà, resta l’immagine di un Paese che schedula, intercetta, espelle. Il carcere chiude, ma la logica che lo ha generato – quella del nemico da mostrare in gabbia – resta viva e pronta a reinventarsi.
Gli alligatori delle Everglades, almeno loro, possono tornare padroni del proprio habitat. Gli immigrati, invece, restano braccati da un’America che sembra aver sostituito la fiaccola della Statua della Libertà con il riflettore di un centro di detenzione.