Le ispezioni disposte da Valditara confermano le responsabilità dell’istituto “Pacinotti” di Fondi. Il ragazzo, vittima di insulti e vessazioni, si tolse la vita il giorno del rientro a scuola
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Paolo Mendico
La morte di Paolo Mendico, 14 anni, non è stata solo una tragedia personale. È il riflesso di un sistema che, troppo spesso, non vede o non vuole vedere. Le ispezioni ordinate dal ministero dell’Istruzione, guidato da Giuseppe Valditara, sull’istituto “Pacinotti” di Fondi (Latina) hanno infatti confermato ciò che la famiglia del ragazzo denuncia da mesi: Paolo è stato vittima di bullismo, e la scuola non ha fatto abbastanza per proteggerlo.
Il rapporto degli ispettori, arrivato a Roma dopo settimane di accertamenti, descrive un contesto in cui gli episodi di violenza e umiliazione sono stati sminuiti o ignorati. Secondo quanto trapela da Viale Trastevere, saranno avviate contestazioni disciplinari nei confronti di più docenti, alcuni dei quali rischiano la sospensione dal servizio. Un passo pesante, ma inevitabile, dopo la morte di un ragazzo che il 9 settembre scorso si è tolto la vita la mattina del rientro a scuola, lasciando dietro di sé solo domande e dolore.
Il ministero mantiene il massimo riserbo sui nomi e sui numeri, ma la decisione di procedere con sanzioni formali fa capire che gli ispettori hanno individuato omissioni significative nella gestione del caso. La scuola, in altre parole, avrebbe avuto segnali chiari della sofferenza di Paolo e delle vessazioni subite, ma non sarebbe intervenuta in modo tempestivo o efficace.
«Lo chiamavano Paoletta o Nino D’Angelo, per via dei capelli lunghi — ha ricordato il padre, Giuseppe Mendico —. Ridevano di lui, lo spingevano, lo prendevano in giro ogni giorno. Ma nessuno sembrava accorgersene». Nelle settimane successive alla morte del figlio, la famiglia ha continuato a raccontare con coraggio la storia di Paolo, descrivendolo come un ragazzo sensibile, generoso, appassionato di musica e di informatica. «Aveva paura di tornare a scuola — ha detto la madre —, si sentiva solo. Mi aveva confidato che non ce la faceva più».
Le prime tracce di quel disagio, però, risalivano già alle scuole elementari. Già allora, raccontano i genitori, si sarebbero verificati episodi di derisione e isolamento. «Avevamo anche presentato una denuncia ai carabinieri», spiegano, e quell’atto è ora oggetto di verifica da parte della Procura di Cassino, che coordina le indagini per istigazione al suicidio.
Dall’altra parte, la preside del “Pacinotti”, Gina Antonetti, ha sempre respinto le accuse, sostenendo che non fosse mai arrivata alcuna segnalazione formale da parte dei genitori. «Non è mai stata protocollata nessuna denuncia — aveva dichiarato — né i familiari hanno mai chiesto un colloquio con me. Parlare di docenti indifferenti o conniventi è ingiusto». Ma l’esito delle ispezioni ministeriali sembra andare nella direzione opposta.
Nel frattempo, il fascicolo della Procura dei Minori di Roma continua a esaminare la posizione di alcuni compagni di classe indicati come presunti bulli. Gli investigatori stanno analizzando messaggi, chat e testimonianze per capire quanto i comportamenti di quei ragazzi abbiano influito sul gesto estremo di Paolo. In parallelo, la Procura di Cassino valuta la responsabilità di eventuali adulti che, per dolo o negligenza, potrebbero aver contribuito a creare un clima di abbandono.
Nelle settimane precedenti alla tragedia, il quattordicenne si era rivolto più volte allo sportello psicologico dell’istituto, confidando un senso crescente di ansia e solitudine. È un dettaglio che oggi pesa come un macigno: le richieste di aiuto c’erano, ma non sono state ascoltate abbastanza.
Il caso Mendico riapre così un tema che il Paese sembra non riuscire a risolvere: quanto vale la vita di un ragazzo quando la scuola diventa un luogo di paura? In un’Italia dove, secondo Telefono Azzurro, un adolescente su tre dichiara di essere stato vittima di bullismo o cyberbullismo, l’assenza di interventi tempestivi resta una costante.
Per Paolo non ci sarà un lieto fine, ma la decisione del ministero di agire contro chi avrebbe dovuto proteggerlo segna almeno un cambio di passo. Una risposta tardiva, ma necessaria. Nelle parole del padre, che continua a battersi perché “nessun altro figlio venga lasciato solo”, c’è il senso di una battaglia che va oltre le aule e le ispezioni. Una battaglia per la memoria di un ragazzo di 14 anni che voleva solo andare a scuola senza paura.