Quello a cui abbiamo assistito a Washington non è stato un semplice incontro diplomatico. È stato il momento in cui ha preso forma, davanti agli occhi del mondo, il primo embrione di una nuova Europa. Non solo quindi l’Europa dei trattati e delle procedure, ma l’Europa politica, quella che per decenni è stata evocata senza mai diventare realtà. Paradossalmente, la scintilla di questa unione sta nascendo a Kyiv, perché l’Ucraina che chiede di entrare nell’Unione, ne incarna i valori fondativi: libertà, sovranità, autodeterminazione.

La strada è lunga, disseminata di ostacoli politici, economici e culturali. Ma mai come oggi l’Europa appare consapevole che il suo futuro non può esaurirsi in un mercato comune o in una sofisticata architettura burocratica. I grafici, le percentuali e le clausole del Patto di stabilità non bastano più: serve un salto politico, e il vertice di Washington sembra aver segnato il punto di svolta.

Del resto fu Draghi a chiedere due anni fa con forza all’Europa di avviarsi verso la strada che porta agli Stati Uniti d’Europa per evitare il suo inesorabile declino.

L’elemento che ha accelerato questo processo è il cambio di scenario nella guerra tra Russia e Ucraina con l’arrivo di Trump. Pur tra mille contraddizioni e con tutti i suoi eccessi, Trump ha raccolto la sfida lanciata da Russia e Cina in uno scenario mondiale in rapido cambiamento.

Tutto questo ha reso evidente che l’Europa, se vuole restare protagonista e non semplice spettatrice, deve dotarsi di un’agenda politica forte, condivisa e coraggiosa. Non basta più “galleggiare”: è il momento di definire un’iniziativa propria, un “whatever it takes”( in italiano "Tutto il necessario", "A tutti i costi") frase pronunciata dall’allora governatore della Banca Centrale Europea Mario Draghi il 26 luglio 2012, nell'ambito della crisi del debito sovrano europeo, per indicare che la Bce avrebbe fatto "tutto il necessario". E tutto il necessario oggi va applicato non solo all’economia ma anche alla sicurezza, alla difesa e alla protezione del diritto internazionale.

Il vertice ha anche mostrato senza filtri un’Europa a due velocità. Da una parte i Paesi che hanno scelto di esserci, di assumersi la responsabilità politica di un futuro comune. Dall’altra quelli che hanno preferito restare ai margini. Le discriminanti non sono più i parametri finanziari, ma la volontà politica di affrontare le sfide epocali che il continente ha di fronte: guerra, sicurezza, equilibri globali, difesa della democrazia.

Nessuno, al termine dell’incontro di Washington, ha nascosto la consapevolezza che si è di fronte a un passaggio storico. I leader europei sono entrati con l’intenzione di rafforzare il sostegno a Kyiv, ne sono usciti con un’agenda politica che guarda al futuro del continente.

«Il gigante economico non può più permettersi di restare un nano politico», ha sottolineato la presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola. Un concetto ribadito anche dal premier polacco Donald Tusk: «È il momento di scegliere: o saremo protagonisti, o resteremo vittime delle decisioni altrui».

Il messaggio partito da Washington è chiaro: l’Europa vuole contare. Non è più solo un’unione di mercati, ma si candida a essere un soggetto politico, in grado di difendere se stessa e i suoi valori in un mondo multipolare.

Per Kyiv è una promessa di sostegno, per gli Stati Uniti un segnale di affidabilità, per l’Europa un punto di non ritorno.