Alla festa del Foglio, Paolo Gentiloni ha parlato con la calma che gli è consueta ma anche con una chiarezza che non ammette equivoci. «Per il centrosinistra c’è ancora molto da fare per costruire un’alternativa credibile», ha esordito l’ex premier, tracciando un confine netto tra la visione europeista che ha segnato la sua carriera e la deriva movimentista che oggi attraversa parte del Partito democratico. Le sue parole, pur senza mai nominare la segretaria Elly Schlein, suonano come una severa bacchettata alla linea attuale del Nazareno.

Gentiloni ha evocato la necessità di «un chiarimento con il Movimento 5 Stelle», ma ha subito precisato che il nodo non è il cosiddetto Campo largo. Il vero discrimine, ha spiegato, è un altro: la posizione sull’Europa e sull’Ucraina. «La frontiera europea sarà la questione politica dei prossimi anni e sbaglia chi pensa di metterla di lato, sostenendo che sia materia di politica estera», ha detto dal palco. Poi ha aggiunto: «Da quanto sapremo sostenere l’Unione europea dipenderà la nostra libertà e la nostra forza nei prossimi anni».

Un discorso che ha il sapore di un manifesto politico. Mentre il Pd, uscito ammaccato da due sconfitte elettorali ravvicinate, fatica a trovare un equilibrio tra l’anima riformista e quella più radicale, Gentiloni invita alla prudenza, alla concretezza, a un ritorno ai principi di responsabilità che hanno reso credibile il centrosinistra di governo. Il suo messaggio è chiaro: senza una linea europeista e atlantista netta, non può esistere alcuna alternativa di governo.

Sul palco arriva poi Carlo Calenda, pronto a rilanciare con toni ancora più espliciti. «Il Campo largo finirà con Giuseppe Conte candidato premier», ha dichiarato. «I 5 Stelle sono pericolosi populisti. Il Pd aveva una cultura di governo che è stata mangiata da M5S e Avs. La sinistra oggi ospita al suo interno pro cinesi e pro russi, come pure Vannacci e Salvini sono legati alla Russia di Putin. Io con filorussi e filocinesi non ci sto insieme. Per noi sono nemici dell’Occidente».

Il leader di Azione, che non risparmia stoccate nemmeno ai democratici, ribadisce la distanza dal Movimento e mette in guardia contro il rischio di una sinistra incapace di proporsi come forza credibile agli occhi dell’Europa e dei mercati. Il riferimento è implicito ma evidente: un centrosinistra dominato dalle pulsioni identitarie non potrà mai contendere il governo alla destra di Giorgia Meloni.

Nel dibattito interviene anche Pina Picierno, vicepresidente del Parlamento europeo e figura di riferimento per l’area riformista del Pd. «La solitudine del riformista è ormai un genere letterario», ha detto con un sorriso amaro. «È una posizione scomoda in questo momento. Ma è necessario ricordare che fare politica non significa sventolare bandiere identitarie. Se vogliamo costruire un’alternativa possibile, serve una cultura di governo e la capacità di parlare al Paese reale».

Parole che riassumono il senso della giornata fiorentina: una sinistra divisa, attraversata da dubbi strategici e da ferite interne, che ancora non ha trovato la formula per tornare competitiva. Gentiloni e Calenda, da prospettive diverse, convergono almeno su un punto: senza un’identità europeista e riformista chiara, il centrosinistra rischia di restare impantanato tra i simboli di partito e i proclami populisti.

E intanto, mentre il governo di Giorgia Meloni consolida la sua posizione in Europa, nel Pd si moltiplicano i fronti aperti. La minoranza riformista prepara un’offensiva interna, gli ex renziani affilano le armi e l’ala sinistra spinge per un’intesa sempre più stretta con il M5S. In mezzo, Elly Schlein tenta di mantenere la rotta. Ma le parole di Gentiloni — più che un consiglio, una diagnosi — pesano come un monito: se il centrosinistra non ritroverà presto la bussola dell’Europa, rischia di restare senza rotta e senza futuro.