Sembrava quasi il grande ballo della diplomazia: annunci roboanti, titoli gonfiati, promesse di tregua e di dialogo. E invece il vertice di Istanbul, quello che avrebbe dovuto segnare il primo vero riavvicinamento tra Russia e Ucraina dopo tre anni di guerra, rischia di trasformarsi nell’ennesima recita a parti invertite. Perché sul palco salirà un solo protagonista, Volodymyr Zelensky, mentre gli altri due attesi, Vladimir Putin e Donald Trump, si limiteranno a spedire comparse.

L’ucraino ci va. Con convinzione, dichiarandolo senza giri di parole: «Sarò lì. Se Putin ha il coraggio, venga anche lui». La risposta del Cremlino? Niente. O meglio, la solita nebbia strategica: frasi a metà, silenzi eloquenti, e infine la conferma indiretta che sarà il ministro degli Esteri Sergej Lavrov a rappresentare Mosca. Una comparsa, appunto. In una trattativa dove ormai si fa finta di giocare, ma con le carte truccate.

Trump, da parte sua, ha fatto il solito teatrino. Prima l’ipotesi scenografica: «Potrei andare io stesso a Istanbul». Poi il passo indietro: sarà il neosegretario di Stato Marco Rubio a rappresentarlo. E giù dichiarazioni di facciata: «Mi aspetto risultati importanti». Peccato che il leader americano, a Istanbul, non ci metterà piede. D’altra parte, la politica estera ai tempi dei reality si misura in hashtag, non in presenze.

Così, l’unico a metterci la faccia resta Zelensky. Che nel frattempo continua a martellare: «Putin non ha alcuna intenzione di trattare. Se non si presenta, è la prova definitiva». E intanto, da Kiev, si fa sapere che — nel caso improbabile in cui il presidente russo dovesse davvero presentarsi — sarebbe persino possibile revocare il divieto formale di incontrarlo. Ma la sensazione è che la sedia resterà vuota. Di nuovo.

Il Cremlino, intanto, si difende con la solita litania: «Le sanzioni ci danneggiano, ma danneggiano anche voi». La solfa del “voi ci odiate, quindi siamo giustificati” è ormai un refrain trito. Ma utile a serrare le file intorno allo zar e continuare a fingere che nulla stia andando storto. Intanto, tra un’escalation verbale e una minaccia di rappresaglia economica, Mosca ribadisce le sue richieste storiche: “denazificare” l’Ucraina e azzerare le “cause profonde” del conflitto. Ovvero: cedere tutto, senza condizioni.

E l’Europa? Ci prova, con la solita voce flebile ma ostinata. Il ministro degli Esteri tedesco, Johann Wadephul, ha ricordato che «l’Ucraina è pronta a trattare senza precondizioni. Ora tocca alla Russia non lasciare la sedia vuota». Ma l’eco delle sue parole si spegne tra le mura del Cremlino. E la sensazione che anche questa occasione finirà in una lunga lista di tentativi mancati cresce di ora in ora.

Intanto, mentre a Istanbul si preparano sale riunioni e si lucidano microfoni, la vera notizia è che Zelensky sarà lì da solo. Trump e Putin no. Troppo impegnati, forse, a gestire le rispettive campagne d’immagine o a valutare se valga davvero la pena negoziare. In fondo, mandare un emissario è sempre più comodo che esporsi in prima persona. Si prendono gli applausi se va bene, e si scaricano le colpe se va male. Una strategia vecchia come il mondo.

E così, mentre il mondo osserva con l’ennesima speranza tiepida, si prepara l’ennesimo vertice zoppo. Di quelli in cui si dice tutto e non si decide niente. Zelensky parlerà, chiederà un confronto diretto, denuncerà la solitudine politica in cui si trova. Gli altri annuiranno, firmeranno comunicati vaghi e ripartiranno. La montagna, ancora una volta, partorirà un topolino. Ma questa volta con due grandi assenti e un’unica presenza vera.

E se domani qualcuno vorrà fare la conta di chi ci ha provato e chi ha bluffato, sarà tutto molto semplice. Basta guardare chi c’era. E chi, come al solito, ha preferito restare nell’ombra a dare ordini da remoto.