Israele minaccia, l’Aiea avverte: colpire un impianto atomico potrebbe scatenare una catastrofe radioattiva in tutto il Medio Oriente. Ma il rischio non è solo strategico: è ambientale
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Le esplosioni nei siti nucleari iraniani non rappresentano solo una questione militare: il rischio di dispersione radioattiva è concreto. «In Iran c’è molto materiale nucleare, distribuito su più impianti», ha avvertito Rafael Grossi, direttore dell’Aiea, sottolineando il potenziale impatto ambientale e sanitario in caso di bombardamenti. L’ipotesi, poi smentita, di un attacco alla centrale di Bushehr da parte di Israele ha fatto riaffiorare il timore di una catastrofe. «Colpire un impianto attivo significherebbe scatenare una crisi radioattiva», ha spiegato James Acton del Carnegie Endowment for International Peace.
Fordow: il cuore blindato dell’arricchimento
Gli occhi restano puntati su Fordow, il sito sotterraneo a 100 metri di profondità nei pressi di Qom, che ospiterebbe circa 2.000 centrifughe per l’arricchimento dell’uranio. Si tratta di un impianto protetto che solo armi specifiche come le bombe “bunker buster” americane potrebbero colpire. «La discussione è se gli Stati Uniti decideranno di intervenire», afferma Edwin Lyman della Union of Concerned Scientists. Tuttavia, gli impianti di arricchimento, pur se sensibili, comportano un rischio di contaminazione inferiore rispetto a una centrale operativa.
Bushehr: una minaccia anche oltre i confini
Il sito più pericoloso resta la centrale di Bushehr, sul Golfo Persico, non lontano da Iraq, Kuwait e Arabia Saudita. Con quasi un gigawatt di potenza e personale russo in loco, un attacco qui provocherebbe una contaminazione estesa e devastante. «Non dovrà mai essere toccata», ha dichiarato Grossi, ribadendo che non esistono motivi strategici per colpirla. Anche Lyman sottolinea come un'esplosione in quell’area potrebbe riversare radioattività persino su Israele.
Le centrali civili non servono per la bomba
Secondo Alessandro Dodaro dell’Enea, Bushehr non può essere utilizzata per fini militari: «Produce energia elettrica con uranio a basso arricchimento, non utile per una bomba». Per arrivare a costruire un ordigno, sarebbe necessario estrarre e riconvertire il combustibile esaurito, ma l’Iran oggi non dispone della tecnologia adeguata. Più preoccupante era la centrale in costruzione ad Arak, colpita da un bombardamento: lì sì, si sarebbe potuto produrre plutonio per uso militare.
Isfahan e Natanz: le tappe dell’arricchimento
Il percorso verso l’arma atomica passa per le centrifughe, che separano l’uranio 235 – il componente utile per una bomba – dall’uranio 238. A Isfahan si compie la prima trasformazione: l’uranio viene convertito in esafluoruro, un gas tossico ma poco radioattivo, da cui si ottiene il materiale arricchito. «In caso di attacco, il rischio è contenuto e limitato al personale interno», spiega il professore Marco Enrico Ricotti del Politecnico di Milano.
Contaminazione limitata, ma rischio reale
Dopo il bombardamento del 13 giugno a Natanz, l’Aiea ha rilevato contaminazioni chimiche e radiologiche all’interno dell’impianto, ma nessuna fuoriuscita. Il quantitativo di uranio arricchito nelle mani dell’Iran resta contenuto: circa 400 chili al 60%, non sufficienti per una bomba. Anche in caso di attacco a Fordow, gli esperti escludono conseguenze gravi. Ma, come ammonisce Acton, questo non giustifica un’azione militare: «Non sarebbe comunque una buona idea».