Dopo 17 anni, l’inchiesta si riapre con clamorosi sviluppi: l’impronta 33 e il Dna di Sempio mettono in discussione la verità processuale, mentre la Procura indaga su altre presenze sulla scena del delitto
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C’erano almeno tre persone in via Pascoli, nella villetta dove Chiara Poggi è stata uccisa. È quanto emerge dalle nuove analisi ordinate dalla procura di Pavia, un’indagine che, dopo anni di verità processuali e sentenze definitive, riapre uno scenario inquietante. Tre figure sullo sfondo, e un’impronta, la numero 33, che «contiene molto materiale biologico», dice l’avvocata Giada Boccellari, legale di Alberto Stasi. Un dettaglio che sposta il baricentro del caso e potrebbe scardinare certezze che sembravano incrollabili.
La storia di Chiara, giovane e solare, si tinge di un nuovo capitolo. La procura, guidata dal magistrato Fabio Napoleone, ha convocato un incidente probatorio il 17 giugno. Gli occhi di tutti sono puntati sull’impronta 33, impressa su un muro, in quella casa che da anni è al centro dell’incubo. Potrebbe essere sudore, potrebbe essere sangue: un tassello che alimenta il sospetto che Chiara non fosse sola con il suo assassino. L’avviso di garanzia consegnato ad Andrea Sempio – il giovane amico di Chiara – parla di «omicidio in concorso». Ma in questa storia, nessuno è pronto a dichiarare la parola fine.
La nuova pista allontana, per ora, le suggestioni più cupe: le voci su satanismo, pedofilia, la Madonna della Bozzola – tutte piste che, nelle parole di Boccellari, «non sembrano trovare riscontri». Ci si concentra invece su una verità più tangibile: il Dna. Sempio, il suo profilo genetico trovato sotto le unghie di Chiara, e poi i nomi di Roberto Freddi, Mattia Capra, Alessandro Biasibetti. Ragazzi, amici, conoscenti: i loro campioni genetici saranno analizzati insieme alle impronte e alle polveri che da anni attendono risposte.
L’avvocata Boccellari, in un’intervista al Corriere della Sera, racconta di Stasi come di un uomo «in una bolla di sapone». Informato a grandi linee, ma lontano dai riflettori. Come se fosse un meccanismo di difesa, un modo per sopravvivere a un processo infinito. Ma sul Dna di Sempio e l’impronta 33, la linea è netta: «È un’impronta molto carica di materiale biologico, forse sangue o sudore misto a sangue. Le conclusioni le trarranno i nostri consulenti». E intanto, si continua a scavare: nel sacchetto della spazzatura, nel tappetino del bagno, sul cucchiaino trovato sul divano. Piccoli frammenti di vita, e di morte.
In questo mosaico, c’è anche la testimonianza di Marco Muschitta: l’auto scura parcheggiata la mattina dell’omicidio. Una Golf nera, forse, simile a quella guidata da Michele Bertani, l’amico di Sempio che – scrive Gente – postò sui social la frase «La verità sta nelle cose che nessuno sa». Un messaggio enigmatico che, nella lettura del settimanale, diventa “C’era una ragazza lì che sapeva”. Il mistero di una macchina che compare e scompare, di un testimone che ritrattò, di una verità sempre sfuggente.
Ma il cuore dell’inchiesta è l’impronta 33. Perché racconta una scena di violenza dove Chiara non era sola. Boccellari dice che già nel 2007 i consulenti notarono la presenza di almeno due persone. E ora, con nuove analisi, si parla apertamente di «almeno tre». Tre figure, tre storie, e un movente che resta nell’ombra. Perché, come ricorda la legale, «il movente si capirà solo dopo che verrà accertato chi c’era davvero sulla scena del crimine».
E così, 17 anni dopo l’omicidio, la villetta di via Pascoli è di nuovo il teatro di un enigma. Un delitto che torna a chiedere giustizia, e una comunità che aspetta risposte. Forse, questa volta, definitive.