Garlasco, Lomellina. Là dove i campi di soia e risaie si stendono come un tappeto immobile, la verità è ancora una chimera che sfugge tra i portici e le rogge. È il 13 agosto 2007 e Chiara Poggi, ventisei anni, muore nella villetta di via Pascoli. Un colpo alla nuca, forse due, e poi quel silenzio che per diciotto anni nessuno ha saputo – o voluto – rompere davvero.

Chiara, la ragazza dell’oratorio e dei sorrisi gentili, aveva una vita che pochi conoscevano. Nelle mail scambiate con l’amica Cristina Tosi, trapela un’anima divisa. «Il mio piccione al telefono mi dà sempre soddisfazioni» scrive, «mentre con l’altro… ultimamente non ci vado troppo d’accordo». Un cuore diviso, due relazioni parallele? Nessuno ha mai voluto scavare davvero. Stasi era il piccione o l’altro? E il secondo uomo, in ogni caso, chi era? Troppo scomodo per un paese che preferisce la versione rassicurante dell’angelo del focolare.

Eppure Chiara, come ogni giovane donna che sogna di tagliare il cordone ombelicale con la provincia, cercava la sua via di fuga. Viveva a Milano, tornava a Garlasco per amore, ma aveva un secondo cellulare che usava per mantenere separate le sue vite. Un telefono pieghevole, azzurro, di cui si sono perse le tracce. Nessuno l’ha mai repertato. Nessuno ha mai voluto sapere cosa contenesse.

Alberto Stasi

A legarla alla vita di provincia, oltre alla famiglia, c’era Alberto Stasi. Fidanzato ufficiale, studente di economia e informatico ossessivo. Di Alberto si è scritto tutto e il contrario di tutto: il nerd freddo e inerte, l’assassino spietato e calcolatore, il voyeur che ordinava il sesso come i file sul suo computer. La verità, come sempre, è più torbida e più banale insieme.

Nel suo portatile, gli investigatori trovarono decine di migliaia di immagini pornografiche. Alcune ai limiti della legalità, altre del tutto legali ma imbarazzanti. In mezzo, i filmini girati con Chiara: amatoriali, intimi, teneri e trasgressivi. Chiara, la brava ragazza, con la lingerie comprata da Alberto nei sexy-shop di Londra, i sex toys infilati tra regali e peluche. Era il loro gioco, il loro segreto. Ma nell’aula di un tribunale, basta per costruire un mostro.

Per la procura e per i cronisti dell’epoca, tanto bastò per trasformare Alberto in un predatore, uno che non conosceva limiti. Era il colpevole perfetto. Il problema? La maschera si reggeva sulle apparenze, e dietro, la realtà era più complessa. Quei video mostravano una coppia che sperimentava, ma senza violenza. E nessuno si prese la briga di chiedere se la vera “ossessione” di Alberto fosse davvero un reato o un diversivo dalle sue giornate noiose.

Le gemelle K

Intanto, mentre la stampa si accaniva sul ragazzo, altri volti restavano nell’ombra. Le gemelle Paola e Stefania Cappa, cugine di Chiara. Due figure ambigue e conturbanti. Cubiste alle Rotonde, la discoteca regina delle notti di provincia. Un contrasto esplosivo con l’immagine da “figlie di famiglia” che Garlasco preferiva. Ballavano in reggiseno e shorts, cercando le luci della ribalta che la vita di paese non offriva.

Le cugine di Chiara Poggi, sono figure che a Garlasco conoscono tutti, eppure nessuno sembra davvero conoscere. Belle, spigliate, complici di una giovinezza vissuta tra le luci della discoteca e le ombre di una famiglia disfunzionale. La notte era il loro habitat, un palcoscenico dove sfidare la noia e la claustrofobia di un paese che le voleva zitte e in ordine.

Ma la mattina del 13 agosto 2007, tutto cambiò. Chiara morì e, con lei, morì anche la possibilità di restare nell’ombra. Le due gemelle si ritrovarono improvvisamente al centro della scena, proiettate dalle luci stroboscopiche della discoteca a quelle ancora più feroci delle telecamere. E fu allora che nacque la tentazione di trasformare la tragedia in un trampolino.

Francesco Chiesa Soprani, manager dello spettacolo e uomo di confine tra la cronaca e i riflettori, racconta di quei giorni come di un set maledetto. “Le gemelle volevano emergere,” spiega. Tanto da falsificare una foto per poter apparire insieme alla cugina uccisa: “Dopo l’omicidio di Chiara, io portai Fabrizio Corona a Garlasco. Voleva gestire la loro immagine. Erano le ‘gemelle K’, le cugine affrante. Il dolore, in televisione, fa audience.” E loro si affidarono al maestro delle illusioni e del nulla per provare a uscire dall’anonimato, finendo per sprofondare nel fango.

Agli atti della Procura di Pavia ci sono gli sms che le gemelle si scambiavano allora. Frasi come «Mi sa che abbiamo incastrato Stasi», parole che suonano come una regia più che come uno sfogo. Un copione scritto a quattro mani, forse per sopravvivere, forse per ottenere finalmente quella visibilità che la notte della provincia non bastava più a garantire.

E ora, dopo anni di silenzi e reticenze, spuntano anche i messaggi vocali. Paola li ha mandati proprio a Chiesa Soprani, nel marzo scorso, quando la procura ha prelevato il dna di Andrea Sempio. «Se la procura me li chiede, li fornisco» dice il manager. «Io non me ne faccio niente».

Un altro frammento di un puzzle dove la morte di Chiara si intreccia con i sogni di gloria delle gemelle. Perché Stefania e Paola non erano solo due ragazze travolte da un dolore: erano anche giovani donne che, in quel dolore, avevano intuito una via d’uscita dalla vita grigia di provincia. Una via che passava per le telecamere e le pagine patinate, e che le portava dritte tra le braccia di Fabrizio Corona, il re dei paparazzi.

In quel mondo, il dolore è un capitale da spendere. E le gemelle K, con i loro sms e le loro pose, impararono in fretta la lezione. Ma la verità? Quella restò sempre fuori dall’inquadratura.

La loro famiglia, i Cappa, è una dinastia di potere. Ermanno, il padre, avvocato influente, siede in salotti che contano più delle stanze del municipio. A lui si rivolgono i notabili, a lui guarda chi spera di sistemare le proprie ombre. Maria Rosa, la madre delle gemelle, è la sorella del padre di Chiara: un legame stretto, che faceva delle due famiglie un corpo unico. Un corpo unico e, a tratti, marcio.

Chiara e le gemelle non si amavano. Lo racconta Maria Ventura, madre di un’amica di infanzia di Chiara: «Le odiavano. Le chiamavano Hitchcock, perché erano capaci di qualsiasi sceneggiata». Una gelosia che serpeggiava tra sguardi e bisbigli, e che Chiara sentiva come una minaccia.

Due giorni prima dell’omicidio, l’11 agosto, Paola Cappa tentò il suicidio. Una chiamata silenziosa: la sorella Stefania ordinò all’ambulanza di arrivare senza sirene, come se anche la disperazione dovesse restare un segreto. Ma la capomacchina, Daniela Mischiatti, trovò Paola con segni sul collo. “Sembrava essersi strangolata da sola,” dirà più tardi.

Il giorno del delitto

Il 13 agosto, il giorno in cui Chiara viene uccisa, la madre delle gemelle racconta di essere rimasta a casa con loro fino alle 9:30. Ma Gianluca Vignati, commerciante, la vede alla guida verso Pavia già alle 8:15. Una bugia che apre una voragine: perché in quelle stanze, tra le 8:15 e le 9:30, Paola e Stefania restano sole. Con un mazzo di chiavi per la villetta di Chiara.

Ermanno, intanto, innaffia i fiori in giardino come se nulla fosse. “Non era affranto, era sereno,” ricorda il medico Giancarlo La Rosa, che lo vede quel giorno. Maria Rosa piange. Stefania, truccata come per una serata in discoteca, non mostra un’emozione.

E mentre Garlasco recita il suo teatro di dolore, un’altra figura spunta tra le ombre: Andrea Sempio. Amico di Marco Poggi, fratello di Chiara, e frequentatore delle stesse notti fatte di luci stroboscopiche e segreti. Il suo nome emerge quando un’impronta palmare, ignorata per anni, viene attribuita a lui. Ma non è solo un segno sulla scena del delitto: è un filo che lega le gemelle, la famiglia Cappa e la morte di Chiara.

Il santuario della Bozzola

In paese dicono che Sempio era parte del giro del santuario della Bozzola, dove il diacono don Gregorio celebrava riti e “esorcismi” che, secondo il racconto di Flavius Savu, si trasformavano in festini. È un orrore, quello che emerge dal memoriale del giovane romeno che dice di aver visto e saputo troppo. Il suo racconto di Savu – registrato e archiviato dalla Procura di Pavia – parla di un mondo sommerso, di sesso e denaro, di un santuario trasformato in un tempio per riti sessuali e prostituzione.

«Avevo conosciuto una ragazza di nome (omissis), figlia di (omissis), di Garlasco. Lei stessa riferiva a mio zio che c’era un grosso giro di prostituzione riguardo il santuario delle Bozzole». Ragazzi minorenni e maggiorenni, pagati 2-3000 euro per avere rapporti con un sacerdote. Sesso venduto come merce sacra.

Savu racconta di un tappeto all’ingresso sotto cui era nascosta la chiave, un passaggio segreto per chi sapeva dove cercare. «Mio zio mi riferiva che anche queste persone sapevano dove si trovava la chiave» dice, «i ragazzi che si prostituivano». E la notte, il santuario diventava un bordello, un andirivieni continuo che nessuno a Garlasco voleva vedere.

La ragazza, aggiunge Savu, aveva confessato di essere stata abusata da (omissis) e da altri. E ancora: «Mio zio mi riferiva che in due occasioni aveva visto una persona che (omissis) vedeva come una specie di divinità: gli baciava perfino le scarpe e lo chiamava ‘sua eminenza’». Era un santuario consacrato all’orrore, un luogo dove la fede si piegava a riti satanici e orge comandate da uomini che portavano la tonaca.

«Mio zio mi riferiva che questo (omissis) faceva riti satanici per indurre i ragazzi a fare orge e cose molto brutte a sfondo sessuale» scrive ancora Savu. «Mio zio mi riferiva anche che c’era un secondo don, che si chiamava (omissis), e anche lui sapeva tutto e partecipava». La paura era una cappa che non lo lasciava respirare. «Mio zio mi riferiva che tante volte aveva paura che un giorno questi gli togliessero la vita, cioè si sentiva ancora in pericolo per quello che aveva visto».

Il suicidio nel 2016

Un racconto che parla di messe nere e sesso comprato, di un santuario trasformato in un club privato per pochi eletti, dove l’ipocrisia di un paese intero si rifletteva in quei rituali. Un altro tassello di una storia che ha sempre avuto più ombre che luce. E in tutto questo sarebbero stati pesantemente coinvolte le gemelle, Sempio, e Michele Bertani – il ragazzo che nel 2016 si uccide, lasciando scritto “La verità non emergerà mai.”

C’è un momento che pochi conoscono, registrato da una microspia piazzata nella macchina di Andrea Sempio. È il 2017, quando l’indagine su di lui si riapre per la prima volta. Andrea è solo, alla guida, e non sa di essere ascoltato. La voce, catturata da un microfono, è un sussurro teso, la confessione di un uomo che parla a se stesso come se volesse liberarsi di un macigno che gli pesa sul petto.

«Michele si è impiccato… perché si è impiccato?» dice, con un filo di voce. “Tutte le cazzate le abbiamo fatte insieme dai zero ai diciotto anni… tutte…”. Le parole sembrano uscire a fiotti, come un vomito dell’anima. Non c’è nessuno a rispondere, solo la radio dell’auto in sottofondo, e il cigolio dell’asfalto sotto le gomme.

Per Andrea, Michele Bertani era più di un amico: era il compagno di ogni notte sregolata, l’ombra con cui aveva condiviso segreti che ora lo tormentano. La morte di Michele, quel suicidio impiccato nel 2016, è una ferita che non si rimargina. E la sua voce, registrata in quell’abitacolo, è un’eco che parla di paure mai dette.

Le “cazzate” di cui parla sono forse i festini raccontati da Flavius Savu, le notti di eccessi e di rituali nel santuario della Bozzola. Oppure sono solo i giochi pericolosi di due ragazzi di provincia, legati da un’amicizia tossica e dalle bugie che la provincia trasforma in segreti di famiglia.

Non ci sono risposte, solo un uomo che si parla addosso. Che ripete come un mantra la stessa frase: “Michele si è impiccato… perché?”. E in quel “perché” c’è il nodo che nessuno ha voluto sciogliere.

Un nodo che lega Andrea, Michele e la morte di Chiara. Un nodo che resta sospeso, come la verità che a Garlasco nessuno ha il coraggio di guardare davvero.Ecco l’altra metà di Garlasco: un paese che si inginocchia in chiesa e poi si perde tra le ombre delle sue ville. Un paese dove Chiara, la ragazza dell’oratorio e della banca, finisce stritolata da un segreto più grande di lei.

Alberto Stasi resta in galera, la condanna inchiodata addosso. Le gemelle ballano ancora nei ricordi di chi le ha viste nei privè delle discoteche, e la verità resta sepolta tra voci e omissioni. Perché a Garlasco, la verità è sempre stata la cosa più pericolosa.