La Profezia di Malachia, attribuita a san Malachia, arcivescovo irlandese del XII secolo, è un testo enigmatico che ha catturato l’immaginazione di fedeli, studiosi e curiosi per secoli. Si tratta di una lista di 112 motti in latino, ciascuno associato a un papa o antipapa, a partire da Celestino II (1143) fino a un misterioso Petrus Romanus, il cui pontificato segnerebbe la distruzione di Roma e il giudizio universale. Pubblicata nel 1595 da Arnoldo Wion nel suo Lignum Vitæ, la profezia è stata oggetto di dibattito: per alcuni è una visione profetica, per altri un falso storico creato per scopi politici.

Le origini: visione divina o invenzione cinquecentesca?

La tradizione narra che san Malachia, durante un viaggio a Roma nel 1139, ebbe una visione dei futuri pontefici, trascrivendo 112 motti simbolici che consegnò a papa Innocenzo II. Questi sarebbero rimasti nascosti negli archivi vaticani fino alla loro pubblicazione, oltre 400 anni dopo, da parte di Wion. Tuttavia, l’assenza di riferimenti alla profezia nei documenti contemporanei a Malachia, inclusa la biografia scritta da san Bernardo di Chiaravalle, solleva dubbi sulla sua autenticità.

Molti studiosi, come il gesuita Claude-François Menestrier e lo storico Luigi Fumi, ritengono che il testo sia un falso del tardo XVI secolo, forse creato per influenzare il conclave del 1590. I motti fino a quella data sono sorprendentemente precisi, mentre quelli successivi appaiono vaghi, adattabili a molteplici interpretazioni. Alcuni indicano Alfonso Ceccarelli, un falsario legato alla curia romana, come possibile autore, notando somiglianze con le opere di Onofrio Panvinio del 1557. Nonostante le critiche, la Chiesa non ha mai preso una posizione ufficiale, e il fascino del testo persiste, alimentato dalla sua capacità di adattarsi ai pontefici moderni.

La struttura dei motti e il loro simbolismo

I 112 motti sono frasi brevi in latino, spesso criptiche, che descrivono un papa attraverso simboli legati alla sua vita, stemma, luogo di nascita o pontificato. Ad esempio, il primo motto, Ex castro Tiberis (“dal castello del Tevere”), si riferisce a Celestino II, nato a Città di Castello. Fino al 1590, le corrispondenze sono spesso chiare; dopo, richiedono interpretazioni creative. L’ultimo motto, dedicato a Petrus Romanus, si distingue per la sua lunghezza e il tono apocalittico, evocando la fine della Chiesa e di Roma.

Alcuni motti si distinguono per il loro simbolismo potente, catturando l’immaginazione con riferimenti a luoghi, stemmi o eventi. Come, per esempio, il motto De rure albo (“Dalla campagna di Albo”) associato a papa Adriano IV. Nato Nicholas Breakspear di umile origine inglese (dunque albionico) ad Abbots Langley, nel territorio di St Albans (città legata al termine “albionico”), fu nominato cardinale vescovo della sede suburbicaria di Albano, rafforzando il legame con il motto.

Un altro motto di rilievo è Crux de Cruce (“Croce dalla croce”), riferito a papa Pio IX, che si adatta al suo pontificato segnato dalla perdita dello Stato Pontificio nel 1870, una “croce” inflitta dall’unificazione italiana sotto Casa Savoia, il cui stemma recava proprio una croce.

I papi del XX e XXI secolo: motti sotto i riflettori

I motti associati ai papi del XX e XXI secolo sono tra i più discussi, poiché la loro vaghezza

permette di adattarli agli eventi storici. Ecco un’analisi dei principali, con le interpretazioni più comuni:

Religio depopulata (“Religione devastata”): riferito a Benedetto XV (1914-1922), il motto riflette il suo pontificato durante la Prima Guerra Mondiale e la pandemia di spagnola, eventi che colpirono duramente i cattolici europei;

Fides intrepida (“Fede intrepida”): associato a Pio XI (1922-1939), richiama la sua resistenza ai regimi totalitari di Hitler, Stalin e Mussolini;

Pastor angelicus (“Pastore angelico”): collegato a Pio XII (1939-1958), il motto si lega alla sua immagine di guida spirituale durante la Seconda Guerra Mondiale;

Pastor et nauta (“Pastore e marinaio”): riferito a Giovanni XXIII (1958-1963), evoca il suo ruolo di “pastore” e il suo passato come patriarca di Venezia, città d’acqua;

Flos florum (“Fiore dei fiori”): associato a Paolo VI (1963-1978), richiama i tre gigli nello stemma dei Montini;

De medietate lunae (“Della metà della luna”): riferito a Giovanni Paolo I (1978), il motto è spesso interpretato come un’allusione alla brevità del suo pontificato (33 giorni, circa un ciclo lunare dimezzato) o al suo nome, Albino Luciani, che richiama la luce della luna;

De labore solis (“Della fatica del sole”): collegato a Giovanni Paolo II (1978-2005), il motto è associato alle eclissi solari avvenute il giorno della sua nascita (18 maggio 1920) e del suo funerale (8 aprile 2005), o ai suoi viaggi globali, che hanno esteso l’influenza della Chiesa come un “sole” universale;

Gloria olivae (“Gloria dell’ulivo”): riferito a Benedetto XVI (2005-2013), il motto richiama l’ulivo, simbolo di pace e legato all’ordine benedettino (Ratzinger scelse il nome Benedetto);

In persecutione extrema S.R.E. sedebit (“Durante l’ultima persecuzione della Santa Romana Chiesa siederà”): associato a papa Francesco (2013-2025), il motto suggerisce un periodo di crisi, come gli scandali finanziari, la secolarizzazione e le tensioni geopolitiche del suo pontificato.

Queste interpretazioni, spesso formulate a posteriori, mostrano come i motti si prestino a letture creative, alimentando il fascino della profezia.

Petrus Romanus: il Papa della fine dei tempi

Il 112° motto, il più celebre e inquietante, si discosta dagli altri per la sua forma estesa e il tono apocalittico. Il testo recita:

In persecutione extrema S.R.E. sedebit. Petrus Romanus, qui pascet oves in multis tribulationibus; quibus transactis, civitas septicollis diruetur, et Judex tremendus judicabit populum suum. Finis.

Traduzione: «Durante l’ultima persecuzione della Santa Romana Chiesa siederà. Pietro il Romano, che pascerà il gregge fra molte tribolazioni; passate queste, la città dai sette colli sarà distrutta e il tremendo Giudice giudicherà il suo popolo. Fine».

Questo passaggio evoca un’immagine drammatica: un ultimo papa, Petrus Romanus, che guida la Chiesa attraverso crisi senza precedenti, culminanti nella distruzione di Roma e nel giudizio universale. Il nome “Pietro” richiama il primo papa, ma nessun pontefice ha mai adottato più questo nome, forse per rispetto o per timore della profezia. Alcuni vedono Petrus Romanus come una figura messianica, altri come un simbolo di rovina, persino associato all’Anticristo in interpretazioni estreme.

Con la morte di papa Francesco, il conclave ha riacceso le speculazioni. Tra i cardinali papabili, nomi come Pietro Parolin, Peter Turkson e Péter Erdő sono stati citati per il loro legame con “Pietro”, anche se tali connessioni restano speculative. Altri suggeriscono che Petrus Romanus possa essere una figura non papale, come il cardinale Camerlengo, che gestisce la Chiesa durante la sede vacante.

La Profezia di Malachia, con i suoi motti evocativi continua a incantare e dividere. Gli studiosi la considerano un’abile costruzione del XVI secolo, probabilmente ideata per manipolare un conclave, ma la sua capacità di adattarsi ai pontefici moderni le conferisce un’aura di mistero che continua a tenere tutti col fiato sospeso. I motti del XX e XXI secolo, da Fides intrepida a In persecutione extrema, colpiscono per la loro apparente attualità, anche se spesso sono stati interpretati retroattivamente.

Che sia un falso o un’eco profetica, la profezia di Malachia rimane un racconto avvincente, capace di intrecciare storia, fede e immaginazione. Con il conclave in corso, una domanda risuona: il prossimo papa sarà Pietro il Romano, o solo un altro capitolo di questa antica storia? Solo il tempo, e forse la fumata bianca, potrà dirlo.