Dai dazi sospesi alle crociate contro università e stampa, i primi mesi della seconda presidenza americana del tycoon raccontano un mondo che si adatta a una anomalia permanente
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Donald Trump
Mentre il mondo cercava di decifrare il significato del suo “Liberation Day”, Donald Trump annunciava dazi del 50% su tutti i Paesi del mondo. Tutti, tranne uno: la Russia di Vladimir Putin. La misura è stata sospesa due giorni dopo, con un tweet notturno in maiuscolo – “JUST A WARNING – FOR NOW!” – ma l’effetto non è quello di uno scandalo diplomatico o economico. È solo una delle cose che succedono nell’epoca Trump. Un’epoca dove l’assurdo è diventato routine, e dove anche l’indignazione ha perso forza, vittima di una saturazione collettiva.
La seconda presidenza Trump, iniziata ufficialmente il 20 gennaio 2025, sta mostrando fin da subito tratti ancora più estremi della prima. Eppure, l’America (e il mondo) sembra aver perso gli anticorpi. La maggior parte dei media, pur mantenendo un tono critico, non insegue più ogni provocazione, e l’opinione pubblica – americana ed europea – tende a minimizzare. “È fatto così”, si dice. Ma questa assuefazione è il vero rischio. Perché quello che fino a pochi anni fa sarebbe sembrato un comportamento da potenziale impeachment, oggi passa quasi inosservato.
Dal giorno del giuramento, Trump ha ripreso e intensificato le sue guerre ideologiche. L’università è il primo bersaglio. Durante un comizio in Florida, ha definito le Ivy League “centri corrotti di odio antiamericano” e ha annunciato una proposta di legge per tagliare il 40% dei fondi federali alla ricerca accademica, destinandoli “alle scuole tecniche e militari”.
Poi è toccato alla stampa. “Il New York Times è il nemico numero uno del popolo”, ha detto in un’intervista a Fox News, dichiarando che chi diffonde “notizie contro l’America” non deve più beneficiare delle tutele costituzionali previste per la libertà di stampa. Un’affermazione gravissima, passata però come una delle tante iperboli trumpiane.
Nel frattempo, il National Climate Assessment è stato bloccato, e le agenzie federali sono state invitate a non usare l’espressione “crisi climatica”. Trump ha anche annunciato che gli Stati Uniti usciranno definitivamente dagli accordi di Parigi, decisione già comunicata formalmente al segretariato ONU il 3 marzo.
Il caso dei dazi è emblematico. Qualche giorno fa sono stati annunciati dazi al 50% su tutte le importazioni dall’Unione europea. La motivazione? “Difesa della sovranità economica americana contro i burocrati globalisti.” Dopo due giorni di caos, panico nei mercati e telefonate frenetiche da Bruxelles, l’amministrazione ha sospeso la misura fino al 9 luglio. Ma non è servito a tranquillizzare nessuno. Perché il messaggio è chiaro: l’America di Trump è imprevedibile per scelta. Nessuna regola, nessun vincolo, solo potere e fedeltà personale.
C’è qualcosa di inquietante nella reazione (o nella non-reazione) globale. Gli analisti cercano spiegazioni razionali a gesti che non ne hanno. Gli ambasciatori cercano “canali informali”. I governi europei si affannano a “non peggiorare le cose”. Il punto è che Trump ha spostato la frontiera della normalità: ciò che prima era inaccettabile ora è semplicemente “trumpiano”. E questo genera una pericolosa inerzia, una progressiva perdita di capacità critica, persino tra chi non lo sostiene.
La chiave di tutto resta la comunicazione. Trump ha costruito un ecosistema parallelo in cui ogni verità è negoziabile, ogni fatto può essere ribaltato. Il nuovo canale governativo “Truth America”, lanciato a febbraio, trasmette 24 ore su 24 con contenuti che mescolano informazione istituzionale e talk show trumpiani, in un mix indistinguibile. Truth, ormai diventato l’unico strumento di comunicazione diretta del presidente, è usato per annunciare decisioni di Stato, attaccare giudici federali, elogiare leader autoritari (Putin, Orban, Bukele) o insultare università e giornalisti.
Il vero tema non è più Trump, ma il mondo che si abitua a Trump. Le istituzioni americane, dopo gli scontri dei primi giorni con la Corte Suprema e il Congresso, stanno cercando una forma di coesistenza. L’Europa, spiazzata dai dazi improvvisi e dalla retorica isolazionista, tenta strategie difensive. Persino la Cina, che pure si oppone apertamente, sembra ormai gestire Trump come una variabile impazzita da circoscrivere, non da combattere.
L’unico modo per sottrarsi alla follia dei tempi trumpiani è rimettere in fila i fatti. Non per giudicare, ma per ricordare cosa è successo davvero, quando è successo, e quanto fosse anomalo. Perché l’anomalia, se non viene nominata, diventa regola. E se la democrazia è anche una questione di linguaggio, allora oggi più che mai il giornalismo ha il compito di tornare a chiamare le cose con il loro nome.
Trump non è un incidente. È un sintomo di un cambiamento profondo. Ma accettarne i deliri come normalità significa smettere di pensare. E, forse, cominciare a cedere.