Nel pieno di una crisi internazionale gravissima, mentre il Medio Oriente brucia e l’Europa prova faticosamente a ritrovare una voce comune, l’Italia resta in silenzio. O, peggio ancora, balbetta. La politica estera del governo Meloni si mostra giorno dopo giorno non solo timida e scollegata dalla realtà, ma anche drammaticamente impreparata ad affrontare le sfide geopolitiche che si stanno accumulando.
Un silenzio che è suonato assordante in queste ore convulse del furibondo scontro tra Israele e Iran, mentre si consumavano le terribili stragi nella Striscia di Gaza, e le cancellerie europee prendevano posizione. Tutte tranne la nostra. Con il ministro degli Esteri che appena balbetta. Tajani che, poche ore prima dell’attacco israeliano sull’Iran, dichiarava che non vi fosse «alcun segnale di escalation imminente». ​​​​​​Smentito clamorosamente dalla realtà.

Poi Matteo Salvini, vicepresidente del Consiglio, che in uno slancio propagandistico scivola in una gaffe da manuale, attribuendo ai nazisti la volontà di distruggere lo Stato di Israele — fondato, ricordiamolo, tre anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Infine le immagini desolanti, dell’unità di crisi della Farnesina, con Tajani da solo in una sorta di “situation room” improvvisata, che trasmetteva più l’idea di un centro parrocchiale che non di un Paese del G7.

A ciò si aggiunge un dato più strutturale e preoccupante: l’Italia è isolata in Europa. Giorgia Meloni non viene coinvolta nei vertici decisivi, resta ai margini dei grandi consessi, incapace di far valere il peso economico, storico e culturale del nostro Paese. A Kyiv, a Berlino, a Parigi, si discute del futuro della sicurezza europea. A Roma si tace. A Bruxelles si negoziano alleanze e strategie. L’Italia viene informata a giochi fatti. La premier sembra aver ormai scelto la linea dell’allineamento totale al nuovo asse trumpiano, nel tentativo di ritagliarsi uno spazio fuori dalla Ue, in attesa delle elezioni americane.

Ma questo isolamento rischia di costare carissimo. Non è sempre stato così. La storia della diplomazia italiana è costellata di figure autorevoli e strategie meditate. Aldo Moro seppe tessere relazioni delicate tra mondo arabo e occidente, mantenendo aperti i canali anche nei momenti più bui. Giulio Andreotti fu interlocutore di Arafat e punto di riferimento per numerose cancellerie mediorientali. Persino nel pieno della Guerra fredda, l’Italia seppe mantenere una propria identità autonoma, capace di dialogare con entrambi i blocchi e svolgere un ruolo di ponte. La vocazione mediterranea della nostra politica estera era un tratto distintivo, non un vuoto da riempire con tweet frettolosi o dichiarazioni improvvisate. Oggi quella visione manca del tutto.

Il governo Meloni appare incapace di definire una linea autonoma, credibile e coerente. E, fatto ancor più grave, nessuno nel governo, né la premier, né i ministri competenti, sente il dovere politico di riferire in Parlamento o davanti al Paese sulla posizione italiana. Ammesso che esista una posizione. Di fronte alla complessità del presente, servirebbe una politica estera solida, informata, capace di leggere le sfide globali. Una strategia che metta al centro il Mediterraneo, la sicurezza energetica, la cooperazione con l’Africa, i diritti umani, e la collocazione dell’Italia in una Europa che cambia. Invece l’Italia oggi resta ferma, in balia degli eventi, appesa alle mosse degli altri, incapace di decidere e di farsi ascoltare. Il problema non è solo di immagine. È di sostanza. Un Paese che non sa dove vuole andare nel mondo finisce per essere trascinato. E rischia, come ora, di essere irrilevante proprio quando la storia chiama.