Il conto del “trumpismo economico” è arrivato, e per il Made in Italy è salato. I dati diffusi dall’Istat sulle esportazioni di agosto — il primo mese con i nuovi dazi americani in vigore — raccontano un crollo del 21,2% delle spedizioni verso gli Stati Uniti e dell’8,1% sui mercati extra Ue. È il peggior dato degli ultimi quattro anni, e l’effetto immediato della guerra commerciale innescata da Washington.

A trascinare verso il basso la bilancia commerciale sono stati soprattutto macchinari e impianti industriali (-16,7%), ma la frenata riguarda anche beni di consumo, alimentari e tessili. «La burocrazia doganale è diventata un incubo», denuncia Bruno Bettelli, presidente di Federmacchine. «Le aziende devono districarsi tra doppie tariffe e moduli infiniti per certificare la provenienza delle materie prime. Ogni settimana cambiano regole e interpretazioni: è una paralisi che scoraggia investimenti e ordini».

Il nuovo sistema tariffario statunitense, in vigore da fine luglio, colpisce in particolare i prodotti che contengono acciaio o alluminio, imponendo un doppio dazio — quello ordinario e quello “di compensazione”, fino al 50% — se le materie prime non sono certificate come non provenienti da Paesi “a rischio dumping”, tra cui la Cina. Il risultato è un groviglio di documenti, controlli e rallentamenti che rischiano di mettere in ginocchio interi comparti.

L’industria del packaging, ad esempio, esporta negli Usa circa 1,2 miliardi di euro l’anno, ma oggi le spedizioni si bloccano ai porti in attesa delle verifiche sulle leghe metalliche. Ancora più complessa la situazione per le macchine utensili, dove ogni componente deve avere un “passaporto” di origine: un costo aggiuntivo che, secondo le associazioni di categoria, può incidere fino al 15% sul prezzo finale.

Il problema non è solo americano. Anche la Turchia, secondo partner extra Ue per molti settori manifatturieri italiani, ha tagliato le importazioni del 26,1%. Qualche segnale positivo arriva invece da Regno Unito (+5%) e Svizzera (+4,7%), ma non basta a compensare il crollo oltreoceano.

Tra i più penalizzati ci sono i produttori di vino. L’Unione Italiana Vini (Uiv) segnala che a luglio, nel timore dei nuovi dazi, il prezzo medio del vino esportato negli Stati Uniti è già sceso del 20,5% rispetto allo stesso periodo del 2024. «Stiamo assorbendo noi i costi dei dazi, tagliando i margini pur di mantenere la clientela americana», ammette un produttore toscano. L’idea di far ricadere l’aumento sui distributori si è rivelata un boomerang: molti hanno preferito orientarsi su bottiglie cilene o australiane, non toccate dai nuovi balzelli.

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Emergenza rientrata, almeno in parte, per Grana Padano e Parmigiano Reggiano, che hanno evitato il temuto doppio dazio grazie all’intervento del governo italiano. Ma anche per i colossi del lattiero-caseario il mercato Usa, che valeva 500 milioni l’anno, oggi appare pieno di incognite.

Sul fronte politico, a Palazzo Chigi si cerca di evitare toni polemici. Donald Trump, amico dichiarato della premier Giorgia Meloni, ha più volte ribadito che le tariffe servono «a proteggere i lavoratori americani da concorrenza sleale». Ma per le aziende italiane il prezzo della protezione altrui è altissimo.

Il saldo commerciale complessivo dell’Italia resta positivo per 1,8 miliardi di euro, ma in forte calo rispetto ai 2,8 miliardi dello stesso mese del 2024. I beni di consumo durevoli hanno perso oltre un quarto del loro valore (-26,3%), mentre l’alimentare, il tessile e l’abbigliamento arretrano del 13,2%. Crescono solo energia (+6%) e beni intermedi (+2,2%), trainati dall’aumento dei costi delle materie prime.

«Il rischio – avverte Bettelli – è che il Made in Italy diventi una vittima collaterale della politica protezionista americana». Le imprese, intanto, cercano di adattarsi, spostando parte della produzione o aprendo sedi di assemblaggio negli Stati Uniti per aggirare i dazi. Ma non tutte possono permetterselo.

L’Italia, che nel 2024 aveva esportato negli Usa beni per oltre 70 miliardi di euro, vede ora compromesso uno dei suoi mercati più redditizi. E mentre Washington promette “flessibilità” per alcuni settori strategici, da Roma si moltiplicano gli appelli a Bruxelles per una risposta comune.

Il problema, spiega un funzionario del Mimit, «non è solo economico ma politico: se passa l’idea che gli Stati Uniti possano colpire indiscriminatamente i partner europei senza reazione, si rischia un effetto domino».

Dai macchinari alle bottiglie di Chianti, l’incubo dei dazi è appena cominciato. E per il Made in Italy, anche questa volta, non c’è happy end.