Mario Draghi non è mai stato tenero con le inefficienze. E oggi, davanti a Bruxelles, sceglie il linguaggio della verità nuda: «L’inazione minaccia la nostra sovranità». L’ex presidente della Bce e poi premier italiano ha consegnato il suo rapporto sull’economia europea e, come prevedibile, non si è limitato a fornire un’analisi tecnica. Ha trasformato un documento ufficiale in un atto d’accusa contro l’inerzia dell’Unione, incapace di reggere il passo di un mondo che cambia a velocità doppia.

Il quadro che disegna è severo. A Washington, con Donald Trump di nuovo alla Casa Bianca, sono tornati i dazi e la linea protezionista. In Cina, Pechino accelera su tecnologia e manifattura, imponendo una competizione spietata. In mezzo, l’Europa resta incagliata nelle sue debolezze: dipendenza dalle importazioni, scarsa autonomia strategica, frammentazione politica. «Gli Stati Uniti assorbono circa tre quarti del deficit delle partite correnti globali», spiega Draghi. «Diversificare i mercati è un obiettivo che nel breve periodo resta irrealistico».

Non basta un accordo come il Mercosur a cambiare la sostanza. Per Draghi, il problema è strutturale: Bruxelles continua a muoversi con una lentezza che cittadini e imprese non comprendono più. «La frustrazione cresce», osserva. «Le persone ci vedono incapaci di tenere il passo con le trasformazioni globali. Sono pronte ad agire, ma temono che i governi non abbiano colto la gravità del momento».

E qui arriva la stoccata più pesante. «Dire che la lentezza è inevitabile perché l’Ue è costruita così, che è il prezzo da pagare per lo stato di diritto, è puro compiacimento». Per Draghi questo alibi non regge più. L’unica strada è cambiare passo: «Serve nuova velocità, serve agire insieme e non divisi. Bisogna concentrare le risorse dove l’impatto è più forte. E produrre risultati entro pochi mesi, non tra anni». Un discorso che sembra indirizzato non solo alle istituzioni comunitarie, ma ai governi nazionali, spesso paralizzati da calcoli interni e timori elettorali. Draghi non lo dice apertamente, ma il messaggio è chiaro: se l’Europa resta ferma, diventa irrilevante nello scenario globale.

Uno dei terreni dove questa irrilevanza si vede di più è quello dell’industria automobilistica. L’ex premier non ha dubbi: gli obiettivi fissati a Bruxelles, come lo stop alle vendite di auto a combustione nel 2035, non hanno più basi solide. «Sono target costruiti su presupposti ormai superati», spiega. In teoria, la scadenza avrebbe dovuto scatenare un circolo virtuoso: infrastrutture di ricarica diffuse, calo dei prezzi dei modelli elettrici, crescita di settori chiave come batterie e chip. In pratica, nulla di tutto questo è avvenuto.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: consumatori spaesati, industria europea in affanno, concorrenza asiatica che avanza. «Il mercato interno non è decollato come previsto», insiste Draghi. «I settori collegati non hanno avuto politiche industriali adeguate». E mentre Bruxelles continua a fissare obiettivi sulla carta, Pechino esporta auto elettriche a prezzi competitivi e gli Stati Uniti investono miliardi con l’Inflation Reduction Act.

Il rapporto diventa così una vera e propria chiamata alle responsabilità. Non una raccolta di grafici e tabelle, ma un documento politico che mette Bruxelles davanti allo specchio. Draghi chiede meno parole e più decisioni, meno procedure e più coraggio. «Bisogna cambiare rotta», ripete, «e lo si deve fare subito».

Il tempismo non è casuale. Mancano pochi mesi alle elezioni europee, e il messaggio dell’ex premier si intreccia inevitabilmente con la partita politica. C’è chi legge nelle sue parole la prova generale di un futuro ruolo di vertice a Bruxelles. Non un’autocandidatura esplicita, ma un modo per dettare l’agenda e costringere i governi a uscire dalla zona di comfort. Draghi, da sempre uomo delle emergenze, sceglie la stessa postura che ebbe con l’euro: spaventare, svegliare, spingere all’azione. La sua credibilità resta intatta, e le sue parole pesano più di tanti vertici formali. In un’Europa che fatica a trovare leadership condivise, la sua voce diventa ancora una volta punto di riferimento.

Alla Commissione von der Leyen tocca decidere se accogliere l’avvertimento o continuare a navigare a vista. Ma la fotografia che esce da questo rapporto è chiara: un’Europa ferma, mentre il resto del mondo accelera. E la frase di Draghi resta come un’eco difficile da ignorare: «Produrre risultati entro mesi, non anni».