Dal 2027 l’età di vecchiaia salirebbe a 67 anni e 3 mesi, con 43 anni e 1 mese di contributi per l’anticipata. Il Mef vuole congelare tutto in manovra, ma la Cgil parla di rischio esodati e mancanza di trasparenza
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Dal 2027 per andare in pensione serviranno tre mesi in più. È la conseguenza dell’adeguamento automatico dei requisiti all’aspettativa di vita sancito da Istat e Ragioneria generale dello Stato: 67 anni e 3 mesi per la pensione di vecchiaia e 43 anni e 1 mese di contributi per l’anticipata, un anno in meno per le donne. Un automatismo previsto dalla legge Fornero che si attiva ogni due anni, e che questa volta rischia di pesare non solo sulle future uscite dal lavoro, ma anche sul piano politico del governo Meloni.
A gennaio la Cgil ha acceso i riflettori sul caso, denunciando «profonda preoccupazione» e «mancanza di trasparenza istituzionale». Secondo il sindacato, l’Inps aveva già aggiornato i propri sistemi informatici con i nuovi requisiti senza che fosse partita una comunicazione ufficiale, mettendo a rischio circa 44mila lavoratori. Sono coloro che, tra il 2020 e il 2024, hanno firmato accordi di uscita anticipata con le aziende: dal 2027 rischierebbero di ritrovarsi per tre mesi senza reddito e senza pensione, diventando di fatto nuovi esodati.
Il governo, colto in contropiede, ha promesso subito un intervento. «Faremo di tutto per scongiurarlo», ha dichiarato il sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon, che tra gennaio e marzo ha confermato il «pasticcio tecnico» ma rassicurato sulla volontà politica di fermare l’aumento.
La linea ufficiale è arrivata dal ministero dell’Economia. Il titolare del Mef Giancarlo Giorgetti ha spiegato di aver chiesto alla Ragioneria generale di sospendere la firma dei decreti in attesa di una decisione politica: «Sono per sterilizzare l’aumento», ha dichiarato, ammettendo implicitamente che si tratta di un problema di risorse. Per bloccare i tre mesi in più, infatti, servono alcuni miliardi di euro, secondo le prime stime.
La strategia del governo prevede di inserire le coperture nella prossima legge di bilancio, così da garantire che dal 2027 i requisiti restino fermi agli attuali 67 anni e 42 anni e 10 mesi di contributi per la pensione anticipata. Se però la manovra autunnale non riuscisse a trovare lo spazio necessario, l’intervento rischierebbe di slittare al 2026, nell’ultima legge di bilancio prima delle elezioni politiche.
C’è però un nodo tecnico: il decreto che recepisce l’aumento dei requisiti va comunque emanato entro il 2025, come impone la normativa sull’adeguamento alla speranza di vita. In altre parole, il documento ufficiale che alza l’asticella dell’età e dei contributi dovrà essere pubblicato, anche se poi il governo intende neutralizzarne gli effetti con una misura ad hoc.
Sul piano politico, il caso pensioni diventa così un test delicato per la maggioranza. Da un lato, il governo vuole evitare di presentarsi agli elettori con un aumento automatico dell’età pensionabile, che avrebbe un impatto sociale immediato e rischierebbe di rievocare le polemiche degli anni post-Fornero. Dall’altro, la necessità di trovare miliardi in un quadro di finanza pubblica già complesso rende l’operazione tutt’altro che scontata.
La Cgil continua a incalzare l’esecutivo, chiedendo chiarezza e garanzie per i lavoratori coinvolti negli accordi di uscita anticipata. Secondo il sindacato, il solo annuncio politico non basta: servono norme chiare e coperture certe per evitare che migliaia di persone rimangano intrappolate in un limbo senza reddito.
Intanto, mentre a Palazzo Chigi si lavora alla prossima manovra, la macchina amministrativa va avanti: il decreto con i nuovi requisiti è pronto e dovrà essere pubblicato. Solo dopo l’intervento della legge di bilancio – se le risorse verranno trovate – gli effetti potranno essere neutralizzati. Un gioco di incastri tra tempi politici e scadenze tecniche, con sullo sfondo la prospettiva di una campagna elettorale in cui il tema pensioni tornerà centrale.