Il Tribunale civile di Roma ha riconosciuto un risarcimento di 82mila, in capo alla Repubblica federale tedesca, per i figli di un soldato catturato nel 1943, dopo l'Armistizio, e internato in campi di concentramento in Germania e Austria, per 632 giorni di deportazione.
Sono stati provati trattamenti in violazione del diritto internazionale e che fu trattato da "schiavo militare": quello che ha subito costituisce un crimine di guerra e contro l'umanità.

Il militare, originario del Rodigino, i cui familiari sono stati assistiti dall'avvocato Fabio Anselmo, non si è più ripreso e nel 1982 si suicidò.

Era nel 12/o reggimento di fanteria, Dino Pozzato, e venne fatto prigioniero in Albania, il 12 settembre 1943, e quindi sottoposto ai lavori forzati in un sottocampo di Mauthausen, poi a Stalag XVII e a Holzhausen, infine rimpatriato il 5 giugno 1945.

Per il giudice, Assunta Canonaco, già la circostanza che il Terzo Reich definì arbitrariamente Imi (internati militari italiani, italienische militarinternierte) i militari italiani catturati, come categoria distinta dal prigioniero di guerra per sottrarli a quelle che erano le tutele previste dalle convenzioni internazionali, è la prova che queste persone vennero private della tutela internazionale che lo status di prigioniero di guerra gli avrebbe assicurato.

Nel caso specifico inoltre è stato provato il mancato rispetto delle convenzioni e la loro violazione, e l'assoggettamento a condizioni di sostanziale schiavitù. È significativo anche, per la giudice, il riconoscimento da parte dello Stato italiano della condizione degli Internati militari, con una legge che ha istituito a inizio 2025 una giornata dedicata (il 20 settembre). Ed è circostanza ormai storicamente acquisita, dice la sentenza, che le condizioni giuridiche e reali degli internati fossero disumane e comunque tali da violare gravemente le previsioni delle convenzioni sul trattamento dei prigionieri, tanto da indurre gli storici a individuarli con l'appellativo di "schiavi militari".

Per questo è stato considerato crimine di guerra e riconosciuto il danno non patrimoniale derivante dalle sofferenze morali e fisiche subite tra la data della cattura e quella della liberazione, quantificato in 82.318 euro.

«È una vicenda drammatica che ha devastato una famiglia, come tante altre. Sono soddisfatto per questa sentenza - dice l'avvocato Anselmo - in questo contesto storico e sociale è estremamente significativo, non solo sul piano giudiziario, che ci possano essere condanne che riconoscano un crimine di guerra».