Sembrava una buona notizia, e invece è stato un boomerang. Il ministro della Cultura Alessandro Giuli aveva appena annunciato, con tono trionfale, di aver «recuperato» 100 milioni di euro da destinare al Fondo per il cinema e l’audiovisivo, colpito da un taglio monstre di 150 milioni nella legge di Bilancio. Ma la festa è durata poco: nel giro di ventiquattr’ore, le associazioni di categoria hanno smontato punto per punto la narrazione ministeriale.

Il nodo è tecnico, ma dalle conseguenze pesantissime. I fondi che Giuli definisce «somme inutilizzate dal 2022» sono in realtà contributi automatici già maturati dalle imprese di produzione e distribuzione cinematografica in base ai risultati artistici, culturali ed economici delle opere realizzate negli anni precedenti. Non si tratta quindi di un «tesoretto dimenticato» nei cassetti del Collegio Romano, ma di risorse già iscritte nei bilanci delle aziende, in attesa di erogazione.

In altre parole, il ministro non ha aggiunto nulla. Ha semplicemente spostato da una voce all’altra del bilancio somme già dovute al settore. Una «partita di giro», come la definisce Angelo Zaccone Teodosi, presidente dell’Istituto italiano per l’industria culturale (IsICult): «È un’operazione contabile dal tono più comunicativo che sostanziale. I 100 milioni corrispondono ai contributi automatici non assegnati nel 2022, nel 2023 e nel 2024: 40 milioni per ciascuno dei primi due anni e 21,3 per l’ultimo. Non sono fondi aggiuntivi, ma spostamenti interni».

Il risultato? I tagli alla cultura restano intatti: dai circa 696 milioni attuali si scenderà a 550 nel 2026 e a 500 nel 2027. Una riduzione che rischia di trasformarsi in una crisi strutturale del comparto, con decine di migliaia di posti di lavoro a rischio e una contrazione delle produzioni italiane proprio nel momento in cui il mercato globale — tra piattaforme streaming, festival e co-produzioni internazionali — chiede più contenuti.

Per il deputato Matteo Orfini, promotore degli Stati generali del Cinema organizzati dal Partito democratico, l’annuncio del ministro è «l’ennesima presa in giro». «Basta scherzare — dichiara —. L’annunciato recupero di 100 milioni è un’assurdità: quelle risorse sono già maturate dalle imprese e bloccate da due anni per colpa della lentezza e del dilettantismo di questo governo. Se davvero si vuole correggere l’errore della manovra, c’è solo una via: chiedere a Giorgetti di non controfirmare il decreto e rinunciare al taglio».

Sulla stessa linea il pentastellato Gaetano Amato, che definisce l’operazione «una presa per i fondelli delle maestranze del cinema, pensata per coprire i tagli e gettare fumo negli occhi ai lavoratori».

Il mondo del cinema, del resto, non si è mai accontentato dei proclami. In un comunicato congiunto, Anica, Apa e Cna Cinema e Audiovisivo riconoscono l’intento del ministro di «trovare liquidità immediata per rifinanziare il fondo» ma ribadiscono che «non bastano le buone intenzioni per impedire una crisi strutturale». Le associazioni avvertono: «Servono soluzioni reali, perché la contrazione delle risorse rischia di minare la sopravvivenza di un settore che vale miliardi di euro e rappresenta l’identità culturale del Paese».

Sotto accusa c’è anche la gestione dei contributi automatici, bloccati dal 2022. Si tratta di un meccanismo complesso, costruito per garantire trasparenza e meritocrazia: le imprese che producono o distribuiscono opere riconosciute come di qualità ottengono crediti da reinvestire in nuovi progetti. Ma il sistema, già rallentato dalle lungaggini burocratiche, è stato quasi paralizzato dal precedente ministro Gennaro Sangiuliano, che — accusano i produttori — avrebbe usato la leva amministrativa come ritorsione contro un mondo considerato ostile al governo.

L’effetto combinato dei ritardi e dei tagli rischia ora di mandare in sofferenza decine di società di produzione, molte delle quali avevano già contabilizzato nei bilanci i contributi maturati. Se quelle somme venissero dirottate altrove, le aziende si troverebbero improvvisamente senza coperture, con un impatto diretto su set, festival e distribuzione.

A preoccupare gli operatori è anche il messaggio politico. Il cinema e l’audiovisivo, che negli ultimi anni avevano ritrovato centralità grazie al tax credit e alla crescita delle produzioni internazionali, tornano a essere trattati come terreno di risparmio. «È come dire — commenta un produttore romano — che la cultura può aspettare. Ma senza la cultura, un Paese come l’Italia smette di essere se stesso».

Per ora Giuli non arretra. Rivendica il decreto interministeriale come «atto di responsabilità» e assicura che le risorse «saranno reintegrate per intero nel 2026». Ma la fiducia del settore è ai minimi. In molti ricordano che lo stesso ministro, poche settimane fa, aveva definito «impossibile» ridurre i tagli previsti in manovra. Ora la sua «retromarcia» sembra più un esercizio di equilibrio contabile che una scelta politica.

La sensazione diffusa, nel mondo del cinema, è che la vicenda dei 100 milioni sia solo un sintomo di un problema più profondo: la sottovalutazione del valore economico e simbolico dell’audiovisivo italiano. Mentre i governi di Francia, Spagna e Germania rafforzano gli incentivi per le produzioni nazionali, l’Italia sembra fare il contrario.

Un «gioco delle tre carte» — per dirla con le parole dei produttori — che rischia di lasciare il settore a mani vuote. E un ministro con una credibilità in meno.