Il 10 ottobre il Comitato di Oslo comunicherà il vincitore del Premio Nobel per la Pace. Un riconoscimento nato per celebrare chi lavora per la fratellanza tra i popoli, la fine dei conflitti e la difesa dei diritti umani. Quest’anno, fra i nomi che circolano con maggiore insistenza, spicca quello del presidente americano Donald Trump, determinato più che mai a ottenere un titolo che inseguiva già dal suo primo mandato.

«Ho concluso sette guerre», ha dichiarato di recente dal podio dell’Assemblea generale dell’Onu. È tornato a ripeterlo anche in Israele, al fianco di Benjamin Netanyahu, ricordando gli Accordi di Abramo del 2020. Quegli stessi accordi, firmati alla Casa Bianca per normalizzare i rapporti fra Israele e gli Emirati Arabi, che oggi rischiano di sgretolarsi sotto le macerie di Gaza.

Trump non nasconde la propria ambizione: vuole il Nobel per la Pace come sigillo di una presidenza che considera “storica”. Le sue candidature sono numerose. Solo negli ultimi due anni lo hanno proposto una quindicina di politici e diplomatici: la deputata repubblicana Elise Stefanik, l’ex segretario all’Interno Doug Burgum, il consigliere alla sicurezza Mike Waltz, il premier armeno Nikol Pashinyan, quello azero Ilham Aliyev e persino il cambogiano Hun Manet. A sostenerlo, con un certo paradosso, anche lo stesso Netanyahu, oggi accusato di crimini di guerra.

Dietro il suo “curriculum di pace” si nasconde una lunga lista di interventi mai davvero risolutivi. Trump rivendica di aver portato stabilità in Medio Oriente, di aver fermato il conflitto tra Israele e Iran, di aver imposto una tregua fra India e Pakistan, di aver mediato nel Caucaso e persino di aver pacificato il Congo. In realtà, gran parte di queste crisi si è riaccesa nel giro di settimane.

Nel caso iraniano, dopo i bombardamenti congiunti di Israele e Stati Uniti sui siti nucleari di Teheran, Trump aveva proclamato online un “cessate il fuoco totale”. Nessun accordo è mai stato firmato, e l’Iran ha promesso “una risposta devastante”. Anche nel conflitto indo-pakistano il presidente si era attribuito il merito di una tregua che il premier indiano Narendra Modi ha poi smentito: «Gli Stati Uniti non hanno avuto alcun ruolo».

In Asia sudorientale, la “pace” tra Thailandia e Cambogia è durata pochi giorni. Trump aveva telefonato ai due leader minacciando dazi economici, ma i confini contesi intorno ai templi sacri restano militarizzati.

Un’altra medaglia che il presidente ama appuntarsi è quella della riconciliazione fra Armenia e Azerbaigian. A inizio agosto i due Paesi hanno firmato alla Casa Bianca un documento che Trump definisce “accordo definitivo”. Ma il testo prevede che la futura “Via della Pace”, il corridoio commerciale che collegherà il Caucaso all’Occidente, sia gestito per 99 anni da una società americana. Più affare economico che diplomazia.

C’è poi il presunto successo in Africa, dove Trump sostiene di aver fermato la guerra tra Congo e Ruanda. In realtà, si tratta di un cessate il fuoco già tentato nel 2024 e subito violato. I ribelli dell’M23, appoggiati da Kigali, hanno ripreso gli attacchi a poche settimane dall’accordo, mentre Washington otteneva in cambio i diritti sulle miniere di cobalto.

L’unica pace che Trump non cita mai è quella firmata con i Talebani nel 2020, preludio al disastroso ritiro americano da Kabul. Quell’accordo, spacciato come fine del conflitto più lungo nella storia degli Stati Uniti, si è trasformato in una resa totale. I Talebani riconquistarono l’Afghanistan in meno di un anno, e il presidente preferì accusare il suo successore Biden del caos che ne seguì.

Anche sul fronte ucraino le promesse si sono rivelate parole al vento. Durante la campagna elettorale aveva assicurato che avrebbe chiuso la guerra “in 24 ore”. Nulla è accaduto. Mosca e Kiev hanno respinto ogni mediazione americana, e Trump ha finito per proporre nuovi invii di armi a Zelensky, ma solo “se l’Europa pagherà il conto”.

Ancora più controversa la sua posizione su Gaza, dove ha immaginato un piano per costruire una “Gaza Riviera” sotto controllo statunitense, deportando due milioni di palestinesi negli Stati confinanti. Un progetto che viola apertamente il diritto internazionale e che Netanyahu ha accolto con entusiasmo.

In vista dell’annuncio del Nobel, Trump ha compiuto gesti simbolici difficili da interpretare come pacifisti. A settembre ha ribattezzato il Pentagono “Dipartimento della Guerra” e ha reintrodotto la pena di morte a Washington DC, abolita mezzo secolo fa. Un cambio di nome e di tono che raccontano molto più di mille discorsi all’Onu.

Quando Alfred Nobel istituì il premio, lo fece per compensare il rimorso per la dinamite, destinandolo a chi avesse “favorito la fraternità fra le nazioni”. Da allora, il riconoscimento ha premiato Mandela, Obama, l’Unione Europea, gli oppositori di Putin e le vittime di Hiroshima. Tutti, in qualche modo, costruttori di ponti.

Trump, invece, continua a parlare di muri, di guerre “vinte” e di nemici sconfitti. E forse è proprio questo il punto: più che un uomo di pace, resta un uomo che ama la vittoria. Anche quando la pace non c’è mai stata.