La seduta della Commissione di Vigilanza Rai si apre e si capisce subito che non sarà una passerella. Sigfrido Ranucci, reduce dall’audizione in Antimafia e da un attentato su cui non è ancora emersa una pista plausibile, ringrazia “la squadra” e la Rai per il supporto d’inizio stagione. Poi la curva si impenna. Maria Elena Boschi, vicepresidente della bicamerale, rimette al centro il “caso Fazzolari” e usa parole nette: «Sarebbe gravissimo se, dopo la vicenda mai chiarita di Paragon, il governo arrivasse al punto di far seguire un giornalista dai servizi segreti». È il grimaldello che scardina l’equilibrio della seduta.

Come già accaduto in Antimafia, Ranucci chiede di secretare la risposta sul sottosegretario di Palazzo Chigi. Motivo: evitare che, in udienza pubblica, vengano fatti nomi di persone legate all’intelligence. Stavolta però Fratelli d’Italia frena. La deputata Sara Kelany contesta la modalità: «Basta ombre, chiarisca in trasparenza. Qui non c’è materia da secretazione». La pressione sale, il conduttore decide di parlare: «Mi risulta che Fazzolari, dopo una nostra inchiesta sul ruolo del padre della premier Meloni, abbia ispirato l’attivazione dei servizi per capire quali fossero le mie fonti. Qualcuno in Commissione può confermarlo».

Le parole graffiano. Ranucci precisa: «Non ho mai detto che mi abbia fatto pedinare», ma il quadro resta pesante. E spiega perché aveva chiesto il segreto: tutelare nomi e funzioni di chi opera nel perimetro dei servizi. A quel punto, dopo una breve sospensione, la presidente Barbara Floridia prende atto della disponibilità di tutte le forze politiche: FdI, per bocca di Augusta Montaruli, non si oppone se c’è unanimità. La secretazione viene concessa. Una vittoria procedurale per Ranucci, un prezzo politico per la maggioranza che fino a un attimo prima chiedeva il contrario.

Boschi insiste sul principio: «La solidarietà si misura difendendo chi fa inchieste. Se fosse confermato che un membro del governo, peraltro senza deleghe ai servizi, ha sollecitato verifiche su un giornalista, sarebbe un vulnus alla libertà di stampa». Nel frattempo il conduttore di Report prova a separare i piani: l’attentato? «Non riesco a collegarlo a nessuna inchiesta in particolare». Cita i filoni all’attenzione degli inquirenti: lo sviluppo dell’eolico in Veneto tra politica locale e criminalità organizzata; il rinvenimento di una mitragliatrice di produzione italiana che ha aperto un varco su interessi mafiosi.

La contesa si sposta sui numeri e sull’impianto editoriale. «Report è la trasmissione più virtuosa in termini di costi tra quelle di prima serata» rivendica Ranucci. «Lamentarsi di Report è come lamentarsi del Giubileo». E ancora: «Non siamo dal pizzicagnolo: servono scelte editoriali, non forbici alla cieca. La Rai valorizzi i programmi che costano meno e funzionano meglio». Sugli ostacoli operativi, un’altra stoccata: «La lentezza nel rilascio della “matricola” non ci consente di fare il lavoro d’inchiesta come dovremmo».

Il fronte di Fratelli d’Italia contrattacca sui contenuti. Il senatore Raffaele Speranzon mostra grafici e cifre: «Nel biennio, il 94% dei servizi ha colpito il centrodestra, solo il 6% il centrosinistra». L’accusa è la solita: parzialità. Ranucci respinge al mittente: «Una notizia è una notizia, non ha colore politico. Il pluralismo si misura sull’insieme dell’offerta del servizio pubblico, non su una sola trasmissione». A mediare interviene il direttore dell’Approfondimento Rai, Paolo Corsini: «Ho già fatto notare che i primi servizi di stagione insistono su soggetti legati a un unico partito di governo; mi auguro che il quadro si allarghi nei prossimi mesi».

Nel mezzo si consuma lo scontro simbolico della giornata: trasparenza contro tutela delle fonti. La richiesta di secretazione diventa, per una parte della maggioranza, “sceneggiatura” utile ad alimentare il mistero; per l’opposizione e per una fetta del giornalismo, un presidio necessario. Alla fine prevale la linea garantista della presidente Floridia: la risposta sensibile si discute a porte chiuse.

Resta l’interrogativo di fondo, che travalica il caso singolo: fino a che punto è legittimo che, a valle di un’inchiesta giornalistica che tocca persone vicine ai vertici istituzionali, si attivino apparati dello Stato per “capire le fonti”? La replica di Ranucci, qui, prova a rimettere ordine: «Sono figlio delle forze dell’ordine, non sono una verginella. Se lo Stato, per tutelare perfino la presidente del Consiglio, deve prevenire fughe di notizie destabilizzanti, capisco che l’intelligence si muova. Me lo sono tenuto per due anni. L’ho rivelato in sede istituzionale solo quando mi è stato chiesto. E comunque non posso raccontare tutto». Una posizione che cerca l’equilibrio tra sicurezza e diritto di cronaca, ma che apre a una zona grigia: chi decide la soglia oltre la quale la tutela dell’ordine pubblico giustifica l’ingresso nei perimetri della libertà d’informazione?

Intanto la politica macina il caso. FdI si intestardisce sulla trasparenza “a tutti i costi”; Italia Viva e opposizioni blindano la libertà d’inchiesta; la Rai è chiamata a una scelta che è insieme editoriale e industriale: proteggere il giornalismo investigativo come asset del servizio pubblico o normalizzarlo dentro il recinto dei “generi”. Il richiamo di Ranucci ai costi—«si valorizzino programmi che costano meno e funzionano meglio»—è anche un messaggio all’azionista: tagliare in orizzontale produce risparmi apparenti e danni al core business della credibilità.

La seduta si chiude con più domande che risposte. Sulla sostanza dei fatti (chi abbia chiesto cosa e a chi), sulle garanzie per le fonti, sulla tenuta del pluralismo in una stagione politicamente infuocata. Ma un punto resta scolpito: il confine tra controllo democratico del servizio pubblico e pressione politica sulle inchieste è sottile. E, quando viene superato, non servono grafici o hashtag a rimettere a posto le cose. Servono atti, procedure chiare e un’assunzione di responsabilità.

Il resto —accuse incrociate, conteggi, diffidenze— è rumore di fondo. La libertà d’informazione, invece, non può essere materia “a consumo”: o la si difende sempre, anche quando urta il potere, o non la si difende affatto.