L’appuntamento con Chico Freeman e Antonio Faraò è per il 4 ottobre al CineTeatro Odeon
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Freeman e Farao (Foto Gaetano De Gennaro)
Il 4 ottobre Chico Freeman e Antonio Faraò incendieranno, con note ed emozioni, il CineTeatro Odeon. Calato il sipario sui festeggiamenti mariani settembrini, è tempo di rimettersi in cammino. Proprio come i pastori di dannunziana memoria: settembre, andiamo. È tempo di migrare. E la malinconia, che c’assale allorquando prendiamo consapevolezza che la quotidianità, con fatiche e abitudini, torna prepotente a far capolino nella vita nostra, può, però, almeno per il popolo nato alla Vita a Reggio Calabria e limitrofo territorio metropolitano, venir, come dire, resa accettabile, dall’imminente vivificarsi del quindicesimo Festival “Reggio in Jazz”, ideato e realizzato dall’associazione culturale Naima, presieduta da Peppe Tuffo.
Tre magiche serate, dislocate tra gli inizi d’ottobre e il tramonto novembrino, che offriranno, agli appassionati ed ai curiosi, l’opportunità di ricaricar le pile dopo settimane di, forse, sfiancante routine giornaliera. Ed oggi, a poco meno tre settimane dal via, vogliamo condurre lettori e ipotetici spettatori dietro le quinte del primo evento, calendarizzato per il 4 d’ottobre, alle ore 21,15 e al CineTeatro Odeon. A salir sul palcoscenico saranno il sassofonista e clarinettista di Chicago Chico Freeman e il
pianista romano Antonio Faraò. E con loro Tommaso Scannapieco al double bass e Lorenzo Tucci alla batteria.
Freeman, classe 1949, figlio dell’altrettanto famoso Von Freeman, è stato un esponente di spicco dell’avanguardia americana della fine degli anni ’70 e ’80. Preziose le sue incisioni e le sue collaborazioni. La sua prima registrazione come leader è stata Morning Prayer nel 1976, con cui ha vinto il New York Jazz Award nel 1979. Divenne famoso alla fine degli anni ’70 come parte di un movimento che includeva personaggi come Wynton Marsalis, innovatori ma strettamente legati alle tradizioni del jazz.
All’inizio degli anni 2000, con dozzine di registrazioni come leader alle spalle, Freeman si trasferì da New York in Europa per iniziare un nuovo capitolo della sua vita: la sua curiosità di esplorare lavorando con musicisti diversi, vivendo in culture diverse e sfidando sé stesso per essere migliore di quello che era. Ha suonato con maestri come McCoy Tyner, Elvin Jones, Jack DeJohnette, Sam Rivers, Sun Ra, Dizzy Gillespie, Wynton Marsalis, Art Blakey, Don Pullen e tanti grandi del jazz, oltre a guidare propri gruppi, sempre spinto a ricercare, culture diverse e creare nuove vie di espressione con il suo stile energico ed esplorativo.
Un concerto leggendario del 1982, alla Carnegie Hall per il Kool Jazz
Festival lo vede protagonista di un gruppo di 17 giovani musicisti emergenti (The Young Lions): un gruppo acclamato dai critici come la più brillante speranza del jazz negli anni ’80 – Chico Freeman,
Wynton Marsalis, Paquito D’Rivera, Kevin Eubanks, Bobby McFerrin e altri – e che ha visto l’uscita di un doppio album che fu definito dal New York Times uno dei migliori dell’album di quell’anno.
La sua ultima incisione è del 2015, Spoken Into Existence, registrato con Antonio Faraò, e ha dimostrato di essere ancora una forza da non sottovalutare. Se quattro decenni fa venivasoprannominato un “giovane leone” per la sua partecipazione alla registrazione del 1982, Freeman
ora merita di essere definito un “maestro del suo strumento”. E ancora oggi Freeman resta un punto di riferimento per la musica d’avanguardia. Tra l’altro, questo disco segna l’inizio di una lunga collaborazione ancora attiva, con il pianista italiano.
Ed ora, avanti con il pianismo di Antonio Faraò, uno dei grandi maestri dello strumento, conosciuto ed apprezzato di sicuro all’estero, ma, forse, ancora troppo poco in Italia. «Non mi capita spesso di essere sorpreso da registrazioni di musicisti, come lo sono stato quando per la prima volta ascoltai uno degli ultimi CD di Antonio Faraò. Ciò che mi ha colpito è stata la sensazione che ho sentito dentro di me. C’è talmente tanto calore, convinzione e grinta nel suo modo di suonare. Mi ha immediatamente attratto la sua concezione armonica, la gioia dei suoi ritmi e il suo senso di swing, la grazia e il candore delle sue linee melodiche improvvisate. Antonio non è solo un ottimo pianista, è un grande». Queste sono le parole di apprezzamento di Herbie Hancock, che nel 2015 e nel 2018 lo ha coinvolto nell’International Jazz Day, prima a Parigi e successivamente a San Pietroburgo, dove si è esibito insieme a Wayne Shorter, Marcus Miller, Al Jarreau, Kurt Elling, Brandford Marsalis, Terri Lyne Carrington e tanti altri musicisti.
Ha suonato con i più prestigiosi artisti. È da annoverare senza dubbio fra i musicisti europei che hanno raggiunto uno standard espressivo al livello degli americani. Il suo stile è inconfondibile: una brillantezza tecnica con un’impetuosa carica emotiva, una notevole vena compositiva e
un travolgente senso ritmico. Romano, classe ’65, è nato in una famiglia dalle radici musicali ben salde (la mamma, nota pittrice e poetessa, e il padre, batterista jazz). La carriera solistica di Antonio Faraò è ricca di successi sin dal principio. Ricordiamo la vittoria, ottenuta nella categoria “Nuovi Talenti”, al referendum indetto dalla rivista “Musica Jazz” nel 1991, e la partecipazione a numerosi festival internazionali nei quali ha potuto suonare a fianco dei maggiori maestri del jazz contemporaneo.
A suggellare un percorso musicale di per sé straordinario, nel 1998 arriva il più prestigioso dei riconoscimenti: il primo premio al “Concorso Internazionale Piano Jazz Martial Solal”, indetto dalla Città di Parigi ogni 10 anni. Nel 2019 riceve a Parigi dai membri della SACEM (Società francese degli Autori Compositori e Editori di Musica) il premio ACEG come miglior pianista. Faraò è ritenuto, a ragione, «uno dei musicisti italiani più apprezzati al mondo, un talento considerato unico
nel suo genere, sia per la grande carica ritmica sia per il suo funambolico e spettacolare virtuosismo». (cit.: La Nazione).
Insomma, se straordinario sarà il quartetto che calcherà il proscenio dell’Odeon, imperdibile è quel che accadrà quella sera: l’omaggio a John Coltrane, con intensi intrecci musicali e la possibilità, più unica che rara, di rivivere le atmosfere dei locali jazz americani degli anni ’50 e anche dei ‘60. Pertanto, arrivederci al 4 ottobre, per ricominciare a rivivere quelle emozioni che solo Reggio in Jazz – anche quest’anno reso vivo “anche grazie al concreto contributo della Fondazione Carical, presieduta da Gianni Pensabene”, come sottolineato dal coordinatore di Naima, Antonio Maida – sa regalare.
Tutte le info, sul programma e su biglietti per le singole serate o abbonamenti, disponibili su https://www.reggioinjazz.it/rij/ticket
Per chi preferisce acquistarli personalmente saranno disponibili presso il bar “Ritrovo Libertà” in via Santa Caterina D’Alessandria n 158 dalle ore 10,00 alle ore 12,30 nei seguenti giorni: 29 settembre, 30 settembre e 1° ottobre.