La strada principale non è molto popolata. Le auto passano e spassano, ma nessuno che si fermi. E poi eccola lì: nel fondo di un vicolo cieco, spicca la chioma bianca di una signora che siede davanti alla porta di casa con due amiche. Si tratta di Maria, Maria e Maria che si stanno godendo la reciproca compagnia tra il fresco della vegetazione davanti all’abitazione.

Fermata “Memorie di campo”

«Cosa si faceva durante l’estate? Si lavorava! Piantavamo pomodori, fagiolini, peperoni, raccoglievamo il granturco, andavamo dalle galline. Cantavamo gli stornelli. La maggior parte dedicate alla Madonna. Ma non solo. C’era un ragazzo che lavorava in un terreno di fronte al mio e mi cantava: “Pe’ mia tu si Maria | Pe’ mia tu sii catena | Che mi incatena con la passion”. Poi divenne il mio fidanzato. I canti erano un modo per alleggerire il lavoro. Ma come mangiavamo altrimenti? Ora i bambini si riposano dopo un anno di scuola. Io sono arrivata fino alla quarta elementare. Mia mamma non era d’accordo che andassi a scuola perché aveva bisogno di me in campagna. Anche quando provavo a incontrare gli amichetti, veniva a richiamarmi per andare a lavorare “fhora” [in campagna]. Mi prendeva dalla mano e mi diceva “Venitinda, vieni! Ca jamu fhora!” [Vieni! Che andiamo in campagna!]. Io non mi sono mai permessa di dirle di no! Era severa, ma la ringrazio per l’educazione che mi ha dato. Comunque, adesso vanno fino ai trenta anni a scuola e mangiano con i soldi dei genitori. Noi almeno abbiamo imparato a farci il cibo da soli!»

Quest’ultima frase suscita una risata un po’ amara che invita a riflettere su come siano cambiati il sistema scolastico e lavorativo oggi. Intervengono subito le altre due Maria smorzando la tensione, dicendo che loro non lavoravano in campagna da ragazzine.

Fermata “Memorie di scuola”

«Da ragazzina ero in casa. Mi mandavano a scuola, ma siccome non ero brava in matematica, non mi hanno fatto andare oltre la quinta elementare. Però io so scrivere, faccio i conti. Mi occupavo io dei conti in casa. Mi aiutavo con le mani nel contare. Mio fratello aveva un’officina meccanica e mi diceva che dovevo vedermela io in casa perché lui era impegnato. E io mi abituavo piano piano. Mi sono abituata così tanto all’idea di dover stare in casa a prendermi cura di mia mamma che non mi sono nemmeno sposata. Ogni tanto ci incontravamo con le altre ragazzine. Stavamo in casa, facevamo il caffè, parlavamo un po’. Verso i quindici anni i miei presero un giradischi e quando venivano le mie amichette ballavamo. Bobby Solo, Little Tony, Dalida… a pensarci mi viene voglia di farlo anche adesso!

Fermata “Memorie di modernità”

«Al mare non andavamo molto spesso. Io personalmente andavo con mio zio che scendeva da Milano e mi portava lui. Ma non si usava andare come oggi. Era più comune uscire in paese, andare a messa per le feste religiose come quella di San Giusto o della Madonna della Luce, sentire i cantanti la sera. Però io andavo al mare perché ero una birichina! Io indossavo anche la minigonna quando uscivo, sai? La mia amica una volta ci provò e il papà le fece “’na battuta ‘nte i dinocchjia” [l’ha colpita nelle ginocchia per punizione]. Io ho detto al mio: “se ti dà fastidio, quando passo ti giri dall’altra parte!” Ero proprio birichina perché ero moderna. Ancora adesso a settanta anni ci tengo alla moda. I miei valori non dipendono dal vestiario! Mio fratello o mia mamma mi accompagnavano apposta a Catanzaro per comprarmi i vestiti. Sembrava un viaggio molto lungo al tempo, ma ne valeva la pena. Non potevo girare con vestiti vecchi! Mia mamma mi raccontava che quando era piccola lei doveva rattoppare tutti i vestiti perché non avevano possibilità economica. Noi non avevamo molti soldi, ma al tempo mille lire avevano valore.»

Attraverso queste voci, riaffiora un tempo in cui si imparava presto a cavarsela, in cui le differenze tra il dovere e il piacere erano sottili, ma chiare. In quelle estati fatte sorprendentemente di gonne corte, pomodori da raccogliere e canti d’amore tra i campi, si formavano caratteri forti e indipendenti, spesso temprati da sacrifici silenziosi. E anche se oggi tutto è cambiato — l’istruzione si è prolungata, il lavoro si è trasformato, i figli restano più a lungo sotto l’ala dei genitori — queste storie ci ricordano che ogni epoca ha i suoi modi per forgiare l’identità, e che nel passato, pur tra privazioni, si può trovare una profonda ricchezza di umanità.