Caso Valarioti, il Pci di cui scrive Lentini non è stato il vero Pci

La riflessione dell'ex vicepresidente del Consiglio regionale della Calabri Ninì Sprizzi sul libro L’utopia di un intellettuale

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di Ninì Sprizzi
8 febbraio 2021
12:04

Ho letto con grande interesse il libro di Rocco Lentini dedicato a Peppe Valarioti, dal titolo L’utopia di un intellettuale.
Poiché mi trovo fuori dalla Calabria, mi era difficile comprarlo in libreria, quindi, sono riuscito a procurarlo on line, e mi sono premurato di farlo, anche perché nelle settimane scorse sono stato tra i protagonisti di una polemica sui social, che è andata avanti mio malgrado, avendo io espresso un giudizio netto su un’affermazione che Rocco Lentini aveva fatto sul PCI dell’epoca in cui è stato consumato, dalla ‘ndrangheta, l’assassinio di Peppe, in risposta ad alcune domande rivoltegli dal giornalista Agostino Pantano.

Per la verità, devo preliminarmente dire che, per quanto Rocco Lentini esprima direttamente o anche indirettamente dei giudizi da me non condivisibili sul PCI, sui quali tornerò in seguito, nel libro non trovo traccia di quel giudizio liquidatorio espresso nell’intervista.


Per riassumere, Rocco aveva espresso, tra l’altro, il seguente giudizio: «Il Pci voleva a tutti i costi il sorpasso della Dc e non sempre il reclutamento della classe dirigente avveniva in maniera trasparente. La sconfitta di quella utopia ha pervaso anche una generazione che si trovò successivamente a dover combattere contro la mafia per vedere applicato quel modello di società libera e giusta in cui Valarioti credeva». In quell’occasione, dopo aver ascoltato l’intervista a Rocco Lentini, tra l’altro, scrivevo: “Ascoltando l'intervista, però, non posso non evidenziare che, nonostante io ritenga che Rocco Lentini sia persona ed intellettuale per bene, tuttavia c'è un'affermazione nell'intervista, contenuta, peraltro, anche nell'articolo, che mi sembra un clamoroso falso storico!!!”
Non riprendo le argomentazioni da me svolte, né mi interessa alimentare una polemica andata avanti per giorni, mio malgrado. Intendo invece sviluppare una riflessione articolata sul libro.

Trovo veramente toccanti le pagine che Rocco Lentini dedica a Peppe, per descriverne la figura di intellettuale calabrese, fortemente legato alla sua terra. E’ estremamente interessante seguirne, attraverso le pagine del libro, il percorso formativo, che parte dal Liceo Classico di Palmi, e si snoda negli anni all’Università di Messina. I rapporti intrattenuti ai tempi in cui il Prof. Domenico De Giorgio era Preside del Liceo Classico palmese, e poi quando lasciò Palmi per assumere la docenza di Storia del Risorgimento all’Università di Messina. Le corpose influenze filosofiche tratte in quel contesto con le frequentazioni del pensiero di Domenico Antonio Cardone, di Guido Calogero, della scuola di Galvano Della Volpe, di storici come Paolo Alatri, ecc. Certamente, queste frequentazioni contribuirono, come ci spiega Rocco Lentini a consolidare il rigore morale di cui era fortemente dotato Peppe Valarioti. Rocco Lentini ci consente di immergerci nel contesto culturale calabrese e dell’Ateneo messinese, che in quegli anni annoverava il meglio della cultura classica italiana.

Da queste pagine di notevole spessore, emerge la personalità forte dell’intellettuale Peppe Valarioti, i legami profondi con la sua terra, col mondo contadino da una parte, ma anche con le antiche radici su cui si fonda Rosarno. Medma, l’antica colonia magnogreca di Locri che Valarioti, attraverso studi approfonditi, ed elaborando teorie originali, colloca appunto nel territorio di Rosarno. Questi studi, vengono approfonditi, anche a seguito dell’esperienza fatta attraverso il suo impegno lavorativo con la legge 285. In questo senso, sono notevoli i contributi che egli pubblica su alcuni periodici locali. Da queste pagine, emerge, insomma, uno spaccato interessante della personalità di Peppe, e delle sue sensibilità culturali; e di questo non si può che essere riconoscenti a Rocco Lentini.

Detto questo, non posso non entrare nel merito di quanto politicamente non condivisibile scrive Rocco Lentini. Se non lo facessi, rischierei di essere omissivo e già questo, in politica, mi si consenta, ritengo sia una colpa grave. Inoltre, poiché considero Rocco un amico, finirei persino col mancargli di rispetto. Mi limiterò ad alcuni esempi tra i più significativi, riservandomi di entrare più nel merito in un eventuale confronto.

Innanzitutto la contestazione di fondo che Rocco Lentini muove al PCI, nelle pag. 46 e seguenti del libro. Scrive Lentini: “….Il percorso di “presa del potere” del Pci, fallito quello elettorale del 1976, deviò su una posizione di “compromesso” i cui costi furono scaricati sulle classi deboli. Nell’ottica del compromesso storico il Pci sostenne infatti apertamente l’azione repressiva del governo sul movimento del Settantasette, subito definito d’impronta sovversiva….” E poi aggiunge: “……Invero “la strana posizione di uno strano Pci” che stava con capitalismo e politica repressiva fu posta sul tavolo dal movimento degli intellettuali francesi Roland Barthes, Gilles Deleuze, Michel Foucault, Felix Guattari, Jean Paul Sartre”.

Si tratta di affermazioni del tutto gratuite, mi consenta di dirlo Rocco, innanzitutto perché il risultato elettorale del 1976 fu tutt’altro che un fallimento. Fu, al contrario, un importante successo elettorale, in continuità con il risultato del referendum sul divorzio del 1974, e col risultato delle amministrative e delle regionali del 1975. La verità è che il Pci, non è allora che, per dirla con Lentini, “deviò su una posizione di compromesso”. Ma la linea del “Compromesso Storico” fu una precisa scelta politica intuita ed avanzata da Berlinguer, su cui poi si attestò tutto il Partito, esposta in tre famosi articoli apparsi sulla rivista settimanale “Rinascita”, nel settembre del 1973, all’indomani dei fatti del Cile che videro la sconfitta della democrazia in quel Paese, e l’assassinio del Presidente Salvador Allende, operati attraverso il golpe del generale Augusto Pinochet. In quegli articoli, il tema era “lo sviluppo della democrazia in Occidente”. Berlinguer si interrogava sulla lezione cilena, e indicava una via da seguire, per impedire che anche in Italia potessero prendere il sopravvento le forze della reazione e neofasciste. La verità è che, proprio per impedire che la linea del Compromesso Storico potesse dare i suoi frutti, da parte delle forze della reazione si sviluppò una strategia vera e propria che aveva i suoi ideatori internazionali in alcune centrali americane, che non disdegnarono di utilizzare in Italia la contestazione prima, e il terrorismo brigatista dopo. Si partì, infatti, dagli “indiani metropolitani” che contestarono il comizio del segretario generale della CGIL Lama a Bologna, e si giunse, a distanza di due anni, nel marzo del 1978, al sequestro e poi all’assassinio dell’On. Aldo Moro, Presidente della DC.

Ovviamente, io capisco le simpatie di Rocco Lentini per i movimenti spontaneisti ed extraparlamentari, ma la storia non può essere piegata alle nostre preferenze politiche, a maggior ragione le date. In questo senso, si capisce la ragione per cui Peppe Valarioti, decise di aderire al PCI, e non cedette al fascino del “Movimentismo” presente in quegli anni nel nostro Paese ed anche in Calabria. Sono, del resto, le stesse motivazioni che in quegli anni spinsero me ad aderire al Pci e a rifiutare la proposta che ci veniva avanzata dei gruppi della sinistra extraparlamentare; ad esempio, da Lotta Continua e, da noi, a Palmi, in particolare, dall’Unione dei Comunisti Italiani M.L., quelli per intenderci di “Servire il Popolo”, di cui parla Rocco in un passo del libro. Questo gruppo, in effetti, a Palmi, aveva dei punti di riferimento importanti in alcuni compagni, peraltro cari amici, che studiavano all’università a Roma. Ma le loro posizioni erano estremamente dogmatiche ed inconcludenti, per cui finirono con l’estinguersi. Del resto, se in quegli anni si voleva fare qualcosa di serio, a sinistra, non si poteva che passare per il Pci. Sia sul piano della politica nazionale, che su quello internazionale. Quando Rocco Lentini parla di alcune manifestazioni come quella di solidarietà verso i braccianti di Avola che, io aggiungo, si battevano per l’abolizione delle “gabbie salariali”, quella manifestazione la organizzammo assieme, i compagni del Pci, quelli del sindacato e i tanti studenti che vi aderirono. Così come, in quegli anni, a partire dal 1968, organizzavamo le manifestazioni per la pace nel Viet-Nham, contro l’aparteid nel sud Africa, nell’Angola, contro il regime dei Colonnelli in Grecia e contro il regime di Pinochet in Chile.

Di tutte queste iniziative, eravamo protagonisti noi giovani di allora, ma avevamo regolarmente al nostro fianco alcune personalità particolarmente significative del Pci come ad esempio, a Palmi, Rocco Scarcella, Memè Marafioti, Antonio Solano, Nino Gullo ecc. e nei vari paesi della Piana, Peppino Lavorato a Rosarno, Mommo Tripodi a Polistena, Emilio Argiroffi , Michele Maduli, Turi Falleti a Taurianova, e poi dirigenti come Pippo Tropeano, Mario Tornatora ecc. ecc. Insomma, era questo il Pci, e non quello che descrivevano inappropriatamente i vari filosofi francesi, cui Rocco fa riferimento e che hanno finito per fare un favore alle Brigate Rosse, e, nella sostanza vera, favorirono il prevalere della reazione in Italia.

Vorrei ora venire alla questione più di fondo che riguarda la lotta alla mafia. Rocco parla di questioni, e li tratta come episodi a sé stanti, come dei fenomeni che si sarebbero manifestati spontaneamente. Parla degli assassini di Rocco Gatto a Gioiosa Jonica e di Ciccio Vinci a Cittanova, e poi della contestazione a Ciccio Macrì (Mazzetta) alla manifestazione di Taurianova del 12 giugno del 1977, della strage in contrada Razzà di Taurianova, ecc. e poi parla dei “tentativi di utilizzazione particolaristica delle coste” a Palmi da parte del clan Mammoliti e “a Rosarno contro la minaccia di speculazione dell’area archeologica” ecc., ecc.

Ora, anche a questo proposito, vorrei richiamare l’attenzione di Rocco Lentini sul fatto che in tutti quegli episodi, per contrastare la strategia delle varie cosche ‘ndranghetiste, il Pci è stato fondamentale, e ciò non solo perché molti compagni decisero di esporsi in prima persona, ma anche perché il Partito aveva compiuto una vera e propria scelta di linea politica, decisa negli organismi dirigenti provinciali, zonali e locali, concepita, elaborata e studiata in vari convegni dedicati al tema della lotta alla mafia, il più importante dei quali si tenne a Palmi, presieduto dal segretario della Federazione Enzo Fantò, che vide la partecipazione della delegazione parlamentare e regionale, in cui il massimo teorico fu il compianto compagno Pippo Tropeano. In quell’occasione, ricordo che venne esplicitamente sancito che la mafia fosse “Il nemico di classe “ fondamentale da battere. Diceva Pippo: “con gli avversari, ci si scontra, ma ci sono dei momenti in cui può essere necessario e persino utile incontrarsi e collaborare, con i nemici no! Con la mafia, qualunque collaborazione o incontro, è improponibile, è impossibile”.

E’ per questo, infatti che il Partito fu a fianco dei giovani di Cittanova che manifestarono tutta la loro indignazione per l’assassinio di Ciccio Vinci, e favorì e sostenne il deciso ricambio generazionale alla guida della sezione. A Gioiosa Jonica nel !978, in occasione dell’anniversario dell’assassinio del compagno Rocco Gatto, il PCI organizzò una grande manifestazione di lotta contro la mafia, che doveva essere conclusa dall’allora Presidente della Camera dei Deputati Pietro Ingrao. In quell’occasione, Ingrao non poté venire perché fu trattenuto a Roma. Eravamo nei tragici giorni del sequestro Moro e proprio quel giorno, era stato ritrovato il falso comunicato delle Brigate Rosse che comunicava che il corpo di Moro era stato gettato in fondo al lago Della Duchessa. E poi la manifestazione di Taurianova e la contestazione a Ciccio Macrì; a contestare la sua presenza sul palco, c’erano anche i giovani della FGCI, e a Pio Latorre, che tenne il comizio, e che sosteneva che la presenza sul palco di Macrì fosse una sua contraddizione e non la nostra, a margine della manifestazione, fummo noi dirigenti del partito reggino a spiegargli che a contestare Macrì erano i giovani comunisti, perché era inaccettabile la sua presenza su quel palco. E poi la Strage di Razzà: quando si scoprì che al summit era presente anche l’allora giovane sindaco di Canolo Domenico D’Agostino, non esitammo un minuto per andare a chiudere la sezione, a chiedere al padre di D’Agostino di inviare una lettera al figlio per esortarlo a costituirsi affinché la giustizia potesse fare il suo corso. Così come siamo stati decisi nell’opera di pulizia delle liste comunali di Platì. Voglio ricordare che in quella circostanza, per batterci, la ‘ndrangheta di Platì, sparò e ferì due compagni candidati, la sera in cui eravamo riuniti nei locali della Camera del Lavoro per approvare le liste. Partecipammo alle elezioni, e perdemmo il Comune, ma questo lo avevamo messo nel conto. E infine, il tentativo di speculazione sulle coste, e per la precisione in contrada Ravaglioso da parte del clan Mammoliti, che cita Rocco Lentini. Bene, in quella occasione, i compagni della sezione del Pci di Palmi, di notte, fecero le fotografie dei terreni spianati dalle ruspe della ‘ndrangheta, organizzammo una mostra fotografica in piazza Primo Maggio, chiedemmo la convocazione straordinaria del Consiglio Comunale aperto, a cui parteciparono i rappresentanti della Regione. In quella occasione, alcuni compagni ed io stesso, denunziammo il clan Mammoliti, come autori del tentativo di speculazione. Su quel Consiglio Comunale, il quotidiano del Pci l’Unità, scrisse un articolo in prima pagina. Su questa circostanza, dopo qualche anno, nel 1979, in occasione del primo processone che si tenne a Reggio Calabria contro le cosche della provincia reggina, “De Stefano più 59”, io venni chiamato a deporre. In quel processo, rendemmo testimonianza contro le cosche della ‘ndrangheta, dei vari comuni della Piana di Gioia Tauro, Mommo Tripodi, Mario Tornatora, Edoardo Macino ed io, tutti e quattro, dirigenti a vario titolo del Pci reggino. E poi a Rosarno, l’impegno di Peppe Valarioti, di Peppino Lavorato e dei compagni di Rosarno, per salvaguardare l’area archeologica, di cui del resto, Rocco Lentini da atto nel libro.

Tutti questi episodi, e numerosissimi altri su cui non mi dilungo, ma che mi riprometto di riprendere in modo organico in altre occasioni, non possono che confermare che il Pci, in provincia di Reggio, portò avanti in quegli anni, una precisa linea politica di lotta contro a mafia. E tutto questo lo fece, senza aspettare l’iniziativa della magistratura, che anzi, da questo punto di vista, era molto più indietro del Pci. Non dimentichiamo che il 416 bis, cioè il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, non era ancora previsto da nostro codice penale. Dovranno passare alcuni anni perché venga approvata la legge Rognoni La Torre. Nel frattempo, la magistratura si limitava a perseguire i singoli reati, e nei vari comuni, il capomafia, era spesso il confidente del maresciallo dei carabinieri, che si limitava a mantenere l’ordine pubblico.
Se è vero, quindi, che il Pci nella nostra provincia, si era attestato con fermezza e con determinazione sul terreno della lotta intransigente contro la mafia, non si può non ammettere che in quegli anni siano stati commessi errori politici, e si siano manifestati limiti che, soprattutto dopo l’assassinio di Peppe Valarioti, hanno finito col pesare, sia sull’esito del processo, sia sulla vita interna al partito. Credo che abbiano pesato molto problemi di divisione interna ai gruppi dirigenti regionali, ed una certa forma di lotta politica, di sapore, direi, “tardo stalinista”. In occasione di un mio recente intervento nel corso della polemica suscitata dall’intervista concessa ad Agostino Pantano da Rocco Lentini, scrivevo tra l’altro:
“…….Tutto questo, certo, non giustifica il PCI, perchè, a mio avviso, se non si è riusciti a fare piena luce sull'assassinio di Peppe, ciò è dovuto sia ai limiti con cui sono state condotte le indagini, ma anche agli errori e alle divisioni interne al PCI regionale; alla lotta politica interna al PCI calabrese, alla contrapposizione tra i gruppi dirigenti. Qualcuno, io ritengo, ha strumentalmente utilizzato l'assassinio di Peppe Valarioti, per indebolire il gruppo dirigente reggino del PCI, al fine di ostacolare un processo di rinnovamento che stava per determinarsi nel partito in Calabria. Anche il PCI nazionale, non comprese a pieno quello che era avvenuto in Calabria in quegli anni, e particolarmente in provincia di Reggio Calabria. Non ostacolò, ad esempio, le mire di qualche arrivista, che sarebbe finita col conquistare qualche posizione di prestigio nelle istituzioni calabresi. Insomma, il PCI nazionale, dopo qualche mese dall'assassinio di Valarioti, di fronte alle divisioni interne, non riuscendo a venire a capo di una situazione di grave contrapposizione tra i gruppi dirigenti, decise di inviare Fabio Mussi, e di nominarlo segretario regionale del partito. Sottolineo, Segretario, non commissario. Infatti, i gruppi dirigenti, sia provinciali che regionali, rimasero in carica, e si celebrarono i congressi a scadenza naturale, sia pure in presenza di quelle contrapposizioni tra i dirigenti calabresi, cui ho fatto cenno, che finirono con l'indebolire drammaticamente la sua azione politica. E' su questi aspetti, che io ho invitato al confronto ed all'approfondimento. Perchè ritengo che quei contrasti, quelle contrapposizioni, indebolirono drammaticamente proprio quel partito e quei gruppi dirigenti, che avevano fatto della lotta alla mafia, l'elemento fondamentale e costitutivo della propria politica, a partire dalla metà degli anni '70. Non so se si riuscirà a suscitare un dibattito vero, ma se lo si dovrà fare, occorrerà farlo con rigore intellettuale, e mettendo da parte ogni facile approssimazione. Solo così sarà possibile compiere dei passi avanti, anche sulla vicenda Valarioti, senza cedere alla propaganda spicciola, che anziché fare chiarezza, continua a pescare nel torbido della confusione”.

L’ultimo aspetto su cui mi soffermerò, riguarda la pista preferita, scelta da Lentini come movente dell’assassinio: quella cioè dalla Cooperativa “Rinascita”. Mi soffermerò poco su questo aspetto, non perché non sia importante, ma perché, credo, sia più giusto che su questa materia, intervengano altri compagni che sono molto più a dentro di me nella questione, essendone stati diretti protagonisti. In primo luogo Fausto Bubba, al quale ho chiesto di intervenire. Credo, inoltre, che su questo potrebbero avere molto da dire anche compagni come Mimmo Giovinazzo, Rocco Rosarno, e tanti altri. Mi limito a dire solo alcune cose: Innanzitutto, vorrei far rilevare che sulla pista della “Rinascita”, si è svolto un intero processo, che non ha convalidato le tesi dell’accusa. Nonostante questo, Rocco Lentini, ritiene che quella sia la pista da seguire e da ripercorrere, per individuare i responsabili dell’omicidio.

Scrive Rocco Lentini a pag. 70: ”…..A Rosarno il Comune è in mano ai socialisti, eppure quella campagna –(elettorale)- assume caratteristiche particolari. Non è in gioco l’amministrazione comunale, ma la gestione di qualcosa che conta dieci, venti amministrazioni comunali: il rapporto di potere interno alla cooperativa “Rinascita”.
Continuando, Rocco si sofferma sugli equilibri gestionali tra comunisti e socialisti interni alla “Rinascita”; quindi sostiene che “….il fatturato miliardario della cooperativa scatena appetiti”. Aggiunge: “La “Rinascita” aveva subito anche qualche tentativo di estorsione andato a vuoto - la ‘ndrangheta fece una richiesta estorsiva di 20 milioni, ma la risposta democratica fu forte - e minacce al presidente…” e poi: ”La richiesta estorsiva e le minacce fanno segnare il passo alla cooperativa dalla quale si dimettono il direttore Fausto Bubba, un funzionario del Pci originario di Caraffa, ed il presidente Prof. Domenico Spataro. In seguito a tali dimissioni le due cariche sociali vengono accorpate nella persona di Antonino Valarioti, cugino di Peppe, che lascerà poi la presidenza al prof, Domenico Giovinazzo”. A questo proposito, Fausto Bubba che, per inciso, non è mai stato funzionario del Pci, mi ricorda che la richiesta estorsiva di 20 milioni venne fatta a lui personalmente, che era il rappresentante dell’Aica e non alla cooperativa “Rinascita”, ed avvenne il 13 ottobre del 1976. Bubba denunziò l’accaduto sia alle autorità competenti, sia agli organi di informazione. Su Rai 2, in diretta, mostrò la lettera estorsiva ricevuta per posta. Su questo tentativo di estorsione, il mondo democratico reagì con prontezza e con fermezza. Bubba poi non andò via, ma rimase a Rosarno a dirigere la cooperativa sino ai primi mesi del 1978, allorché venne chiamato a Roma a dirigere il settore agricolo della cooperazione, dove rimase fino al 1990.

Come si vede, si tratta di episodi che avvengono a distanza di tempo, ma su cui sarebbe interessante sentire le opinioni dei protagonisti dell’epoca. Voglio ricordare ad esempio, che a denunziare il tentativo di truffa all’Aima, attraverso il riciclo degli agrumi già conferiti, è stato proprio Rocco Rosarno, che riferisce la circostanza a Mimmo Giovinazzo, ed assieme a lui, si recano al partito ed informano sia Peppe Valarioti che Peppino Lavorato. Questi ultimi, informano gli organismi di direzione di zona e provinciali del partito e convocano una riunione, nella quale si ribadisce l’assoluta necessità di essere rigorosi e di impedire qualunque forma di truffa.
Il Pci di allora, voglio ribadirlo, non frappose alcun ostacolo alle indagini sull’assassinio di Peppe. Ai magistrati inquirenti, chiedevamo che si indagasse con rigore in tutte le direzioni possibili. Si indagò sulla gestione della cooperativa e si giunse ad aprire una inchiesta parallela, e ad inquisire per truffa persone specchiate quali erano Mimmo Giovinazzo e Rocco Rosarno, i quali furono processati ed assolti con formula piena. A questo proposito, quando il partito dovette chiedere dei dolorosi sacrifici a questi compagni che stimava e conosceva come persone integerrime, non esitò a farlo, arrivando persino a sospenderli dal partito. Questa richiesta di sacrifici non venne allora compresa, né condivisa dai compagni interessati, e venne subita malvolentieri dai compagni di Rosarno, ma comunque, ribadisco, venne fatta. Il processo specifico, si tenne e portò alla loro completa assoluzione.

Un’ultima considerazione: Io non so quanto sia giusta la valutazione fatta da Rocco Lentini, secondo cui il controllo della gestione della cooperativa valesse dieci o venti volte la gestione del Comune; certo era molto importante, ed è stato giusto che si indagasse in quella direzione. Quello che mi sento di dire, però, è che non si indagò a sufficienza anche verso altre possibili direzioni. Basta guardare a quella che è stata la storia della Piana di Gioia Tauro e della Calabria, sia negli anni precedenti, che in quelli successivi al 1980. Ci si può accorgere che, altro che il controllo della cooperativa “Rinascita”! Erano ben altri i grandi flussi di denaro a cui la mafia guardava. Quelli si, che valevano ben più di dieci, venti volte il comune come Rosarno. Mi riferisco al controllo del porto e dell’area industriale, mi riferisco agli appalti delle grandi opere pubbliche. Ma i boss delle cosche sapevano bene che, per poter avere un ruolo nei presenti e nei futuri affari milionari, era necessario che nessuno intaccasse il loro prestigio. E qui, invece, avvenne lo scontro diretto con i compagni di Rosarno. La vittoria elettorale del Pci, era un vero e proprio affronto al loro prestigio. Per questo la campagna elettorale fu particolarmente infuocata e lo scontro fu continuo. Il risultato delle elezioni aveva leso il prestigio delle cosche! L’elezione di Lavorato e Bubba, suonava per loro inaccettabile. Il Pci doveva essere messo alle corde, e così fecero. Lo colpirono a morte, colpendo ed uccidendo uno dei loro simboli più autorevoli, un figlio autentico del popolo, un intellettuale organico che, appunto, era diventato dirigente politico di grande valore. Scelsero quindi Peppe Valarioti, e lo assassinarono il giorno dopo la vittoria elettorale. Fu un colpo durissimo, un assassinio terroristico-mafioso, che segnò la vita di molti di noi. Un colpo che fece rifluire quel grande movimento di massa contro la mafia, che aveva caratterizzato la lotta politica nella Piana di Gioia Tauro ed in provincia di Reggio Calabria, e che era stato al centro dell’iniziativa politica del Pci reggino. Dopo quell’assassinio, e quello di Giannino Losardo a Cetraro, la ‘ndrangheta ebbe il sopravvento nell’intera provincia di Reggio ed in Calabria.
Sono trascorsi più di quarant’anni dall’assassinio di Peppe Valarioti, ed oggi stiamo assistendo ad un riemergere dell’interesse per questa figura di intellettuale e di politico. Il libro di Rocco Lentini oggi, quello di Enzo Ciconte pubblicato alcuni mesi fa, alcune iniziative editoriali in corso, l’interesse che suscitano in tanti giovani calabresi, sono segnali di grande valore, perché ci fanno sperare che si possa riaprire una nuova fase di lotta per l’emancipazione ed il riscatto della nostra terra.

di Ninì Sprizzi
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