L’omicidio dell’attivista dell’ultradestra americana è diventato il simbolo di una battaglia ideologica che nasconde però un contrasto solo di superficie e sancisce la vittoria del capitalismo sull’essere umano
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La morte dell’attivista dell’alt right americana Charlie Kirk ha aperto un vero e proprio vaso di Pandora su alcune dinamiche del mondo attuale e sulla confusione che regna suprema. La sua figura, tanto divisiva quanto emblematica, ha finito per rappresentare più di un singolo percorso politico: è diventata il simbolo di una battaglia ideologica che si consuma da anni negli Stati Uniti e che, inevitabilmente, si riflette anche in Europa.
Più che analizzare le idee di Kirk, alcune delle quali riflettono una visione abbastanza tradizionale della famiglia e delle dinamiche sociali, occorre interrogarsi sulla natura stessa di una contrapposizione tra due mondi che sembrano non capirsi. La società contemporanea è in preda ad una confusione mai sperimentata prima. La moderna struttura globale è un mondo senza identità, dove la famiglia viene sventolata solo per fare breccia in sede elettorale; il mondo ha normalizzato ogni forma di diseguaglianza, ed è ormai attraversata da due ideali estremi che, pur presentandosi come opposti, affondano le radici nello stesso blocco ideologico: quello di una visione del mondo in cui il denaro e la performance economica rappresentano l’unico vero metro di valore. Tra queste due fazioni, che tanto scaldano i cuori, cambiano i linguaggi, mutano le bandiere, ma la logica resta identica: eliminare il dissenso vero e ridurre la complessità dell’essere umano a due categorie rigide e immediatamente spendibili sul mercato del consenso e sul mercato dei social.
Da un lato si è affermato una specie di nichilismo assoluto, un assenza di ogni identità di cui l’estremismo woke è l’espressione più tangibile. Questo estremismo rifiuta a priori ogni identità ed eleva l’attenzione alle minoranze a suo dogma indiscutibile, trasformando il dibattito culturale in una sorta di tribunale morale permanente, dove ogni voce critica viene marchiata come regressiva. Attraverso il paravento del fact checking, l’uso selettivo dell’hate speeche l’accusa sistematica di negazionismo, si è creata una grammatica della censura e si tenta in ogni modo di reprimere ogni posizione divergente, screditando qualunque proposta capace di incrinare i rapporti di forza consolidati. Il dissenso non viene più discusso, ma delegittimato a priori.
Sul fronte opposto, le posizioni reazionarie della alt-right, incarnate da Charlie Kirk, offrono un contraltare altrettanto distorto: una narrativa identitaria che non è basata su valori condivisi, ma è fondata sulla paura di un’immigrazione percepita come incontrollata e sulla convinzione che la retorica progressista abbia trasformato l’appartenenza a una minoranza in un titolo di merito automatico, indipendente da capacità, meriti o responsabilità individuali. La destra evoca sempre di più un clima di odio con toni pseudo-complottisti e presenta le strade come violente, dimenticandosi che non esiste mondo più sicuro di quello che viviamo. In questa arena, giornalisti, utenti social e persone comuni si animano e si scontrano con toni emotivi, con meme e visoni iper semplificate della realtà, ma non si rendono conto che stanno alimentando all’infinito la loro stessa povertà, culturale, economica e tecnologica.
Perché in realtà, woke e alt-right si rivelano, se le si osserva con razionalità, due facce della stessa medaglia: opposti solo in superficie, ma simmetrici nel metodo e nelle conseguenze e nei valori di base. Entrambi trasformano il conflitto politico in un’arena di simboli e accuse reciproche, evocando fantasmi irreali, un inesistente fascismo sempre risorgente da un lato, ed una apocalittica sostituzione etnica dall’altro, senza mai toccare il cuore del problema. Quando governano, prendono decisioni speculari, servono sempre gli interessi di gruppi ristretti e non quelli della collettività, alimentando quella bomba sociale che oggi conosciamo: salari bassi, precarietà diffusa, impoverimento di intere generazioni. Dietro le apparenze che li vedono contrapposti, hanno entrambi permesso alle grandi aziende di occupare ogni spazio, di aggirare leggi e diritti dei lavoratori, di piegare la politica ai dettami della finanza globale. Dietro le bandiere ideologiche e gli slogan idiocratici, dietro i meme strappalacrime, il risultato è sempre lo stesso: la vittoria del capitalismo assoluto sull’essere umano.
Il progressismo radicale ha legittimato la cultura delle multinazionali travestite da paladine della diversità, concedendo loro l’aura di attori morali mentre delocalizzavano, precarizzavano e concentravano potere, mascherandosi con la bandiera arcobaleno. La destra identitaria, a sua volta, ha difeso apertamente l’idea di un mercato senza freni, presentandolo come garanzia di libertà individuale, mentre in realtà consegnava interi settori produttivi a un’oligarchia finanziaria senza volto e senza remore nello sfruttare le stesse masse di migranti che la destra stessa contrasta.
Woke e alt-right non hanno fatto altro che offrire due narrazioni diverse a un medesimo progetto: rendere l’economia, le bolle dei social, il successo a tutti i costi gli dei dell’unica religione rimasta; una religione senza paradiso in cui il cittadino non è altro che consumatore o forza-lavoro sacrificabile. È così che la contrapposizione culturale, apparentemente insanabile, si rivela funzionale alla conservazione dello status quo: mentre l’opinione pubblica viene distratta dalla guerra dei simboli, dalle emergenze programmate, il capitale concentra ricchezza e potere come mai prima d’ora.