In un testo intitolato La medicalizzazione della vita, incluso in Cruciverba e pubblicato per Einaudi nel 1983, Leonardo Sciascia riflette sull'atto del chiamare il medico in punto di morte, partendo da uno studio dello storico francese Philippe Ariès.

L'atto rientra nel cerimoniale sociale che in Europa, fino a una certa epoca, era interamente sacrificato al rispetto del decoro e delle apparenze (“non gli hanno nemmeno chiamato il medico”, si diceva in certi casi) e, di fatto, non era che un preludio del rito funebre. Il passaggio dall'idea della morte all'interdetto sulla morte è incarnato, secondo Sciascia, dall'Ivan Il'ič di Tolstoj che, già nel 1886, ne fa il protagonista di un suo notissimo racconto.

Proprio partendo dalla fine del personaggio tolstojano, indiagnosticata e senza nome, è possibile individuare, con grande anticipo, il carattere di una nuova ipocrisia che, in alcuni contesti chiusi e remoti, circonda tanto la malattia quanto la morte, continuando a farlo fino ai giorni nostri: se prima del passaggio individuato da Sciascia era impossibile ammettere che si potesse morire fuori dalla propria casa, a partire da allora, non portare un ammalato in ospedale è considerato un segno di arretratezza e di indigenza.

Tuttavia, se l'atteggiamento dell'uomo occidentale moderno di fronte alla morte e alla medicalizzazione della vita è tutto sommato ancora questo, molto più spesso di quanto si creda, e specialmente alle nostre latitudini, morire in casa è considerato l'unico modo possibile di farlo, salvando le apparenze. Perché, purtroppo, esistono ancora nella nostra civiltà dei luoghi in cui persino la vita medicalizzata è diventata un lusso che non ci si può permettere e allora tanto l'ammalato quanto chi lo circonda e prova ad assisterlo finiscono per convincersi che la medicina non possa fare granché.

È appena il caso di precisare che spesso non può fare davvero alcunché. Bisogna compiere appena un altro passo per scoprire l'altra faccia della stessa medaglia è arrivare a credere che il medico possa sostituire il prete, continuando però a non avere la benché minima fiducia in nessuno dei due. Ciò ha come conseguenza il fatto, ormai più che evidente nelle province del Meridione, che il miraggio della medicalizzazione perpetua, pur essendo impossibile nella quasi totalità dei casi, sia forse il migliore dei destini che ci si possa augurare.