Fu testarda, ruvida, arrogante. Pagò un prezzo altissimo per la sua indipendenza. Pochi la amarono senza riserve, molti la amarono a denti stretti, tutti la rispettarono
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Oriana Fallaci (Foto GianAngelo Pistoia)
C’è un frammento di marmo, su una tomba fiorentina, che recita soltanto questo: “Oriana Fallaci – Scrittore”. Non “giornalista”, non “inviata speciale”, non “autrice di bestseller” né “intellettuale”. Semplicemente: Scrittore. Bastano nove lettere per dire tutto ciò che lei ha preteso di essere, e tutto ciò che ha preteso dal mondo: essere raccontato, senza sconti.
Nacque il 29 giugno 1929, quando Firenze si svegliava ancora fra le macerie morali del regime fascista. Figlia di un padre partigiano, Edoardo, torturato a Villa Triste, e di una madre silenziosa e forte come una muraglia toscana, Oriana imparò subito cosa significasse la parola libertà: la imparò portando messaggi in bicicletta, attraversando l’Arno di notte, nascondendo bombe in un cesto di insalata. Nome di battaglia: Emilia. Prima firma di battaglia: Oriana.
E con la libertà imparò subito anche il coraggio. Il coraggio di raccontare le guerre dove i generali non andavano. Di porre domande dove i potenti non volevano. Di scavare dentro la verità quando la verità puzzava di sangue, di sudore, di polvere da sparo. Il Vietnam, il Messico del massacro di Tlatelolco, l’India di Indira Gandhi, l’Iran dell’Ayatollah Khomeini. Ogni confine, per lei, era un cancello da scardinare. E ogni intervista, un corpo a corpo.
Non esiste intervista più leggendaria di quella con Khomeini: lei, piccola italiana testarda, lo provocò fino a strappargli parole di pietra. Poi si tolse lo chador davanti ai suoi occhi e davanti al mondo. Quel gesto – sfrontato, necessario – bastò a riassumere un secolo di giornalismo: la parola come arma, la firma come bandiera, la donna come protagonista. Non oggetto, non cornice. Oriana come Scrittore di se stessa.
Con lo stesso ardore, sfidò i generali in Vietnam e i generali di carta a Roma. Trascinò la sua macchina da scrivere ovunque ci fosse un segreto da forare, un potere da mettere sotto tortura di domande. Intervistò i potenti – Kissinger, Gheddafi, Arafat – ma si fece sempre nemica dei potenti. Con Kissinger, del resto, firmò uno degli autogol più celebri della diplomazia americana: «Fu la conversazione più disastrosa che io abbia mai avuto» confessò il Segretario di Stato. Oriana rise, e pubblicò.
Ma Fallaci fu più di un’inviata. Fu autrice di romanzi che vendevano milioni di copie e spaccavano le coscienze: Lettera a un bambino mai nato, Un uomo, Insciallah. Parole come ferite, pagine come confessioni. Pagine che, come confessò lei stessa, non permetteva a nessuno di correggere. Perché, diceva, “un libro è un figlio” – e i figli non si consegnano agli editor.
Fu testarda, ruvida, arrogante. Pagò un prezzo altissimo per la sua indipendenza. Pochi la amarono senza riserve, molti la amarono a denti stretti, tutti la rispettarono. Con Pasolini un legame fortissimo, si insultavano e si cercavano: due facce della stessa medaglia, due voci che sapevano accarezzare e squarciare. Quando lui morì, massacrato all’Idroscalo, lei fu tra i primi a gridare che non era possibile fosse andata così. Lo fece con gli strumenti che conosceva: la parola, la carta, l’inchiostro.
Persino davanti al proprio cancro – “l’Alieno”, lo chiamava – Oriana rimase Oriana. Rifiutò di farsi umiliare da una malattia che le rubava il fiato, ma non la voce. E quando le Torri Gemelle crollarono sotto i suoi occhi newyorkesi, non poté restare zitta: La rabbia e l’orgoglio fu un urlo. Controverso, criticato, ma autentico come sempre. Perché per lei, scrivere, era ancora guerra. E lei non disertò mai.
Dietro di lei restano interviste che oggi sembrano impossibili: Husayn di Giordania, Henry Kissinger, Golda Meir, Deng Xiaoping, Sean Connery, persino l’ayatollah Khomeini. Restano cronache di frontiera scritte tra i proiettili e le polveri del Libano, del Sud America, della Cambogia. Restano le pagine di Niente e così sia — forse il più onesto dei suoi reportage, il più crudo, il più umano. E resta la lettera straziata a Panagulis, Un uomo, un inno alla dignità dell’eroe e al disincanto dell’amore.
Chi l’ha conosciuta, chi l’ha amata, chi l’ha odiata, chi l’ha letta anche solo una volta, sa che non esisterà mai un’altra Oriana Fallaci. Non ne avremo più. Non ora, non domani. Perché il coraggio – quello vero, quello che non corteggia il consenso – è diventato un bene raro, quasi proibito. Lei lo coltivava come un campo minato, perché sapeva che è tra le mine che nascono i fiori più ostinati.
Nel suo testamento lasciò una frase semplice, scolpita sulla pietra. E basterebbe leggere quella parola, oggi, per capire perché ancora parliamo di lei. Perché ancora la citiamo, la detestiamo, la rimpiangiamo. Scrittore. Non esiste un modo più perfetto di dire tutto ciò che Oriana Fallaci fu: una donna che, con la penna, si fece testimone di un secolo. E che, col silenzio, ancora oggi, ci chiede di non dimenticare. 29 giugno 1929 – 15 settembre 2006. Oriana Fallaci non è morta. Finché esisteranno domande scomode, verità non dette, interviste impossibili, lei sarà seduta accanto a noi. A dettare, fumare, insultare, scrivere. E a chiederci, ancora una volta, se siamo abbastanza liberi per avere paura — e raccontarla.