Tra squadre in crisi economica, giocatori fragili e partite soporifere, la Serie A ha smarrito il suo spirito. I tifosi non vibrano più e i giovani preferiscono videogiochi e sport globali al vecchio rito domenicale
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C’era una volta il calcio in Italia, o meglio il calcio c’è ancora ma, dopo la vittoria nel 2006 della Coppa del Mondo, diciamo che il calcio in Italia c’è molto di meno.
Si potrebbe scrivere un libro su come quella vittoria ha segnato la fine di un epoca; quel trionfo a Berlino sembrava l’inizio di una nuova era, ed invece, per una serie di motivi che hanno generato una tempesta perfetta nello sport un tempo più amato, ha segnato paradossalmente la fine di un ciclo. La Serie A, da sempre regina indiscussa del calcio mondiale, ha cominciato lentamente a scivolare indietro nelle gerarchie, mentre il nostro rapporto culturale e collettivo con questo sport ha perso la sua centralità. Pier Paolo Pasolini aveva definito il calcio come l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo; aveva visto nel pallone un rito capace di unire il popolo in una grammatica condivisa di gesti, simboli e appartenenze. Fino agli inizi degli anni 2000 quella rappresentazione era ancora potente, poi di colpo quell’unità si è sgretolata, frammentata da una società sempre più individualista e da un calcio che, invece di avvicinare, sembra essersi trasformato in un prodotto d’élite e globalizzato. Ma almeno fosse un prodotto decente.
Le partite di Serie A sono spesso una agonia per i tifosi, e l’emblema di questo declino lo si è visto ieri quando il Milan, un tempo società simbolo del calcio moderno, non è riuscito neanche a prendere un giocatore, di fatto scarto della Bundesliga, chiamato Boniface. Complice anche i continui veleni, le diatribe eterne su Calciopoli, l’impunità di alcune società che hanno falsificato passaporti e che sono super indebitate, dopo il 2006, i grandi campioni hanno cominciato a migrare verso la Premier League, la Liga e, più recentemente, anche la Bundesliga. Le nostre squadre, fino a qualche decennio fa icone capaci di dominare in Europa, hanno progressivamente perso competitività, soffocate da bilanci fragili, stadi fatiscenti, proprietà evanescenti, procuratori arruffoni e scandali che hanno logorato la fiducia del pubblico.
Il “calcio all’italiana”, sinonimo di tattica e genialità difensiva, ha lasciato spazio a un calcio che passa sempre la palla in orizzontale, un calcio statico che parla altre lingue, altre economie e altri immaginari. Una bruttissima copia del guardiolismo, dove la costruzione dal basso non la fa Mascherano, ma è saldamente nei piedi di Bastoni. Il centrocampo è dominato da giocatori velocissimi, fisicamente potenti, ma che sono tecnicamente mediocri. C’è stata una specie di confusione tra calcio ed atletica, tra intelligenza tattica e forza fisica.
Questa tendenza è comunque globale, non esiste più un vero campione, i vari Mappe, Bellingham, Yamal, non possono essere paragonati neanche lontanamente a Zico, Socrates o Maradona, ma neanche a Cassano. Appena hanno un’unghia incarnata, un mezzo fastidio da campioni assoluti diventano delle pippe che se non passano il pallone alla velocità della luce, non sanno neanche loro cosa farci. I tiri da lontano sono una pura utopia, le squadre di oggi devono entrare nella porta col pallone. Nonostante i progressi negli allenamenti e nella medicina sportiva, i calciatori moderni hanno la resistenza di un paziente di una RSA: appena li tocchi possono morire sul colpo.
Caniggia, Vieri e Maradona andavano a fare serata sabato e senza dormire facevano di domenica in campo cose mostruose, i calciatori di oggi se hanno un mezzo capello fuori posto, rischiano 4 mesi di stop. Alcuni finiscono addirittura, in nome del denaro, a giocare in Arabia, un luogo dove il denaro è praticamente inutile. Fuori ci sono 50 gradi, non puoi neanche uscire con la compagna che c’è il rischio che la arrestano e se va bene giochi davanti a 400 persone che neanche capiscono cosa stai facendo. Ma meno male che c’è l’Arabia, così almeno non vediamo più Retegui, che negli anni 80 in Italia avrebbe giocato in serie C. Immaginate marcato da Baresi o Gentile, se uno come Retegui avrebbe toccato mezzo pallone in un campionato.
Un’altra deriva assoluta che rasenta la barzelletta è l’arbitro che deve spiegare al pubblico le decisioni del VAR, in un rituale umiliante che ripercorre quello che accadeva nel telefilm di Batman degli anni 60, quando il protagonista doveva fare ragionare uno spaesato Robin sulle cose più ovvie. Tra poco si arriverà al punto in cui le partite le faranno arbitrare direttamente da casa, magari con un joystick o un algoritmo, oppure i giocatori saranno scelti attraverso il televoto su un’app, come in un talent show qualunque. È questa la deriva di un calcio che, nel tentativo di inseguire la trasparenza totale, ha smarrito la sua anima: si è trasformato in una soporifera morte della spontaneità.
Ogni gesto è rivisto, ogni gol è sospeso nell’attesa di una conferma al monitor, ogni emozione è congelata nel dubbio burocratico della tecnologia. Il campionato è dunque iniziato, ma non se ne è accorto nessuno. Gli stadi non vibrano più come un tempo, le piazze non si svuotano per la domenica calcistica. Altro che trovare il nuovo Totti o il nuovo Del Piero: i nostri ragazzi guardano altrove, attratti da sport globali, da videogiochi più spettacolari o da un intrattenimento che non chiede sacrificio ma solo consumo rapido.
Se non si invertirà la rotta, il calcio italiano rischia di diventare un teatro stanco, senza più attori veri, ma solo repliche trasmesse in diretta streaming. Non basteranno più gli investimenti o i proclami delle istituzioni: servirà restituire al gioco il suo carattere più autentico, fatto di errore e improvvisazione, di passione e di appartenenza. Solo così il calcio potrà tornare a essere un linguaggio condiviso e non un prodotto da scaffale, destinato a essere sostituito alla prima occasione.