Agosto. L’Italia si sdraia. Ibiza, Mykonos, Salento, Sardegna: la mappa dell’evasione si colora di cocktail e costumi sgambati, di ciambelle-unicorno e selfie sotto il sole. Le stories scorrono: “Musica a palla”, “Soldi”, spritz al tramonto e voli di ritorno. Una vacanza lunga quanto una connessione Wi-Fi. Poi si spegne. Si rientra. Si ricomincia.

Eppure, il concetto stesso di vacanza – quella vera, quella collettiva, quella italiana – è una costruzione recente. Prima era una chimera. Un lusso da aristocratici. Poi il fascismo organizzò il tempo libero con l’Opera Nazionale Dopolavoro e i treni popolari per le gite di un giorno. Ma fu solo nel dopoguerra, con l’articolo 36 della Costituzione, che il riposo divenne un diritto. Nacque così la villeggiatura.

L’Italia scopriva le spiagge, lo scandalo dei bikini, le pensioni a gestione familiare. I treni si riempivano, le automobili si caricavano fino al tetto, si partiva per Rimini, per Viareggio, per le spiagge di tutta Italia. Era il tempo delle ferie in bianco e nero, dei pranzi preparati a casa e conservati nelle borse frigo e delle valigie legate col filo di spago. Il mare aveva il sapore di un premio.

Negli anni ’80 e ’90 arrivarono i villaggi turistici, il turismo internazionale, i pacchetti all inclusive. L’estate diventò un fenomeno di massa. La vacanza cambiò forma, ma rimase corale. Oggi non più. Le ferie si frammentano, si accorciano. Le città non si svuotano mai davvero: si alternano esistenze. Così il turismo, che un tempo era unione, oggi è algoritmo.

Nel mezzo, c’è la Calabria.

C’è stato un tempo in cui l’estate calabrese non era né evasione né svago. Era sudore. Sveglia all’alba per i campi. Emigrazione. L’estate significava partire. O tornare. I paesi si svuotavano e poi si ripopolavano per qualche settimana: gli emigrati ritornavano con auto nuove, parole in dialetto storpiate da accenti stranieri. Il mare? C’era. Ma restava lontano. Perché la Calabria era chiusa su se stessa, isolata, dimenticata. Il turismo non esisteva. Esisteva la sopravvivenza.

Poi qualcosa è cambiato anche qui. Prima lentamente, quasi in silenzio. Poi con il boato delle betoniere, il rumore delle seconde case, la colata dei residence e delle villette a schiera.

Una trasformazione senza visione, dove il cemento ha soffocato l’anima.

Ed oggi?

Tropea, Scilla, Soverato, Diamante: nomi che un tempo erano solo geografia, oggi sono trend. I social li rilanciano, i reel li esaltano. Eppure, il cuore del problema resta: la Calabria ha imparato a mostrarsi, ma non ha imparato ad accogliere. O meglio, lo fa solo per una manciata di giorni. Poi tutto si spegne. L’estate calabrese è diventata una fotografia con il filtro sbagliato. Un filtro che abbellisce, ma non illumina.

Il modello è fallito. Lo dicono i dati, ma lo dice soprattutto l’evidenza. Il turismo calabrese non è un’economia, è un rituale stagionale. Si concentra in poche settimane, sempre negli stessi posti. Tropea è un unicum – e nei periodi clou diventa un ingorgo ingestibile. Il resto è paralisi. È un travaso interno: dai paesi e dalle città dell’interno verso le marine, dai centri medi verso la costa. Ma sempre dentro la stessa regione.

Dura venti giorni. E poi svanisce come la sabbia tra le dita.

La Sila e il Pollino si riempiono nei weekend di visitatori affamati che hanno un solo obiettivo: mangiare. Ma il turismo di sistema, quello che crea lavoro stabile, che forma professionisti, che anima i territori… non c’è.

Gli istituti alberghieri diminuiscono. Il personale è spesso improvvisato, sottopagato, demotivato. Le strutture ricettive sembrano congelate nel tempo. I musei sono cimiteri del patrimonio culturale, visitati una tantum da qualche turista spaesato. I borghi si spopolano. Le case si sbriciolano. I centri storici non raccontano più storie. E la politica? Assente. O peggio: retorica.

La Calabria non è la Sicilia: non ha Palermo, non ha Catania, non ha l’Etna né Ortigia. Non è la Campania: Napoli è oggi la città più visitata d’Italia. Non è la Puglia: quella, almeno, ha costruito un brand e un’identità. Con fatica. Con costanza. Con una visione.

Ma la Calabria, se avesse coraggio, potrebbe essere qualcosa che gli altri non sono. Potrebbe essere natura. Natura pura. Natura selvaggia. Natura che cura.

Una terra che sa farsi piccola e immensa. Umile e sacra.

Come un dialetto sussurrato da una madre stanca.

Come un respiro che non chiede nulla, ma resta.

La Sila, con i suoi giganti verdi. Il Pollino, con la sua forza primordiale. Le coste: Tirreno e Ionio, due anime che non si somigliano. Da Praia a Mare a Isola di Capo Rizzuto, il mare cambia volto, colore, voce. Sabbia, scogli, promontori. E quei paesaggi che si vedono solo qui.

Allora perché inseguire modelli plastificati da cartolina? Perché rincorrere Miami, Mykonos e Ibiza, se si può essere Patagonia? Perché voler somigliare alla Versilia, quando si potrebbe diventare un rifugio spirituale per un’Europa stanca, accaldata, stressata, inquinata e compressa? Perché non costruire un turismo del respiro, della lentezza, del ritorno? Un turismo reale e credibile, dove chi arriva lo fa per ritrovarsi. Dove ogni casa abbandonata può diventare una residenza d’artista, un laboratorio di narrazione. Dove ogni sentiero è un cammino di rigenerazione. Un turismo sostenibile, ciclabile, accessibile. Ma per farlo serve una cosa semplice e scandalosa: collegamenti. Treni, bus, navette. È tutto lì. Non possiamo più accettare che chi atterra a Lamezia non sappia come spostarsi. Che i Giganti della Sila siano irraggiungibili senza automobile. Che un turista scelga un’altra meta solo perché più facile da raggiungere. Eppure, le soluzioni esistono. La Campania ce l’ha fatta: le Frecce di Trenitalia portano ogni giorno migliaia di persone a Salerno, poi navette e aliscafi verso la Costiera. È davvero così impensabile immaginare lo stesso a Paola, a Crotone, a Reggio? È così utopico sognare una ferrovia delle radici, dei mari, dei parchi? Ma qui, in Calabria, continuiamo a suonarcela e cantarcela da soli. Un turismo fatto dai calabresi per i calabresi. Con prezzi altissimi e servizi bassi. Le solite facce, le solite voci, le solite sciabolate, le solite pupille dilatate nelle solite feste.

Un’estetica da yacht finto su gommoni veri. Una Calabria Instagrammabile che non lascia nulla. Se non un sorriso amaro. Dietro la sciabola dello spumante, resta solo l’eco di un’illusione. Eppure la risposta c’è. È nei paesi che resistono. Nelle cooperative e nelle iniziative che nascono in silenzio. Nei ragazzi che tornano. Nei festival musicali e letterari, nelle piazze e nei vicoli. Nelle librerie che riaprono d’estate. Nelle sagre che sanno di comunità e non di business. Nei sentieri. Nei vini riscoperti. Nei piatti poveri che tornano gourmet. È nei volti. Negli sguardi. Nella domanda che nessuno vuole fare: e se la Calabria fosse finalmente una scelta? L’estate calabrese non è solo stagione. È poesia. È suggestione. È memoria. È l’ultima frontiera tra la cartolina e la carne. E chiede solo una cosa: che qualcuno, finalmente, venga per poter ritornare.