Il titolo attribuito a questo nostro intervento, che può apparire provocatorio, è stato scelto per richiamare l’attenzione del lettore su una situazione drammatica, quale quella che si vive nelle carceri italiane da ormai troppo tempo. La condizione degli istituti penitenziari ha raggiunto livelli allarmanti: a fronte di 46.500 posti realmente disponibili, essi ospitano circa 63.500 persone, in condizioni di sovraffollamento estremo. Solo nei primi mesi del 2025 si sono registrati 74 suicidi tra i detenuti, ai quali si aggiungono due agenti di polizia penitenziaria e due operatori sociali, oltre a 47 morti ancora in attesa di accertamenti. Nel 2024 i Tribunali di sorveglianza hanno accolto più di 5.800 ricorsi per trattamenti inumani e degradanti, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani.

Questi i dati più aggiornati (Società della Ragione), che descrivono la situazione denunciata: il carcere è ormai isolato dal mondo esterno, e le persone recluse trascorrono quasi tutta la giornata in celle inadatte alla vita, dalle quali troppe volte “si scappa” con il suicidio. Di fronte a tali numeri non si può che sorridere amaramente davanti a chi ha l’ardire di affermare che la prigione ha come obiettivo la riabilitazione dei condannati; in realtà, il carcere serve a confinare le devianze dei poveri e a emarginare chi è già escluso dalla società.

A fronte di questa situazione inaccettabile e palesemente incostituzionale, le misure da intraprendere – anzi, da dover essere intraprese; meglio ancora, che avrebbero dovuto essere intraprese da tempo – sono numerosissime; nel frattempo, il Parlamento, in attesa che si desti dallo stato comatoso in cui versa per la sua neghittosità, deve (o dovrebbe) adottare un atto di clemenza che consenta una riduzione immediata della popolazione carceraria.

Oggi, 14 dicembre, in Vaticano si conclude il Giubileo dei detenuti. In questi giorni si sta assistendo a una gara di dichiarazioni da parte di coloro che nel titolo sono definiti perbenisti part time: frasi inutili e urticanti, imbellettate per le festività natalizie, sideralmente lontane da azioni concrete. Una distanza che diventa ancor più evidente se si richiama alla mente quanto riportato già da un anno sul sito telematico del Governo (pagina del Commissario di Governo per il Giubileo della Chiesa cattolica 2025 – Presidenza del Consiglio dei Ministri), e quindi le parole di Papa Francesco: “Propongo ai governi che nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi”.

Traduciamo in linguaggio laico e costituzionale queste esortazioni.
La Costituzione prevede amnistia e indulto come strumenti di politica criminale nella disponibilità del legislatore ordinario; ciò significa che entrambi gli istituti hanno piena cittadinanza costituzionale (Corte costituzionale, sent. n. 171/1963). Se questo è vero, come è possibile che tali strumenti siano stati stigmatizzati fino a diventare desueti, abbandonati, se non anche disprezzati? Le risposte sono due.

In primo luogo, l’uso disinvolto che di tali istituti è stato fatto nella storia repubblicana (di un uso «ciclicamente regolare» – discorreva G. Gemma – senza precisi limiti costituzionali – a dire di G. Zagrebelsky –). Dall’entrata in vigore della Costituzione fino al 1992 sono stati concessi ben 23 provvedimenti di clemenza collettiva, al netto di quello del 2006, noto alle cronache come ‘indultino’. Evidentemente troppi, tanto da farli bollare come atti di debolezza dello Stato apparato, non più compatibili con la costruzione di un diritto penale onnipervasivo e populisticamente orientato. In secondo luogo, la riforma dell’art. 79 della Costituzione, che disciplina gli atti di clemenza collettiva. La modifica, approvata nel 1992 – gli anni di Tangentopoli – da un Parlamento stretto nella morsa dell’indignazione popolare, rappresentò plasticamente una resa alle spinte giustizialiste di quel periodo.

Da allora ottenere una misura di clemenza è diventato un traguardo quasi irraggiungibile: serve infatti la maggioranza dei due terzi dei membri di entrambe le Camere, su ogni articolo e nella votazione finale (la maggioranza più alta prevista dalla Costituzione). Il risultato è sotto gli occhi di tutti: fatta eccezione per l’indulto del 2006, è da 33 anni che il Parlamento non approva più alcun atto di questo tipo. In breve, la clemenza, un tempo sfruttata fino all’eccesso, oggi è praticamente estinta.

Nel tempo del Giubileo, sottolineiamo (insieme a uno dei più autorevoli costituzionalisti italiani A. Pugiotto) che amnistia e indulto non sono sinonimi né di indulgenza plenaria né di perdono. La remissione giuridica della pena può essere parziale e produrre effetti estintivi selettivi, escludendo, per esempio, determinati reati. Non costituiscono perdono, perché non richiedono alcuna predisposizione dell’animo e non sono un dono, potendo, in taluni casi, la loro concessione essere subordinata a un obbligo di dovere. Lo Stato laico può dunque accogliere l’esortazione del Papa.

Richiamati i dati che hanno aperto questo nostro intervento, amnistia e indulto rappresentano strumenti costituzionali per salvare i detenuti, stante la condizione che essi vivono che è di pericolo per loro stessi, e non lo sarebbe necessariamente nei confronti delle nostre comunità, visto che non è fondata l’obiezione più ricorrente al mancato impiego dell’amnistia e dell’indulto: l’incremento di reati derivante dalla liberazione anticipata di molti detenuti. Eppure, gli studi sui livelli di recidiva dimostrano che tale timore non trova riscontro: i dati evidenziano che chi ha usufruito dell’indulto non è tornato a delinquere più di quanto avviene nella media.

Va inoltre ricordato che nel 2013 – ormai più di un decennio fa – l’Italia è stata condannata per il carattere inumano e degradante del sovraffollamento carcerario. E, proprio come avviene oggi con l’Ungheria di Orbán, numerosi giudici di altri Paesi rifiutano l’estradizione verso il nostro Paese: una situazione che non può che risultare mortificante.
Per il bene della Repubblica, le forze parlamentari dovrebbero finalmente esercitare la loro prerogativa: non solo rivendicare il diritto di non usarla – come accade ormai da 33 anni – ma anche dimostrare di saperla assumere con senso di responsabilità. Ne sono consapevole, forse è chiedere molto.