Il quesito per dimezzare i tempi ha ottenuto un risultato deludente e alimenta nuove tensioni tra i pentastellati, +Europa e i dem. Conte boccia l’iniziativa e rilancia lo ius scholae, Magi lo accusa di trovare scuse per non fare nulla. Il fragile equilibrio appare sempre più instabile
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Il referendum per accorciare i tempi di concessione della cittadinanza si è concluso con un sonoro flop. Il campo largo – già in affanno dopo le Europee – si ritrova ora a fare i conti con un’altra ferita. Il quesito lanciato da +Europa, che proponeva di dimezzare da 10 a 5 anni i tempi per ottenere la cittadinanza, ha ottenuto pochissimi voti rispetto a quelli sui diritti dei lavoratori. Il tema, però, resta centrale e incandescente. E le polemiche non si fanno attendere.
A dare fuoco alle polveri è stato Giuseppe Conte. L’ex premier, leader del Movimento Cinque Stelle, ha bollato il referendum come «uno strumento che ci ha lasciato perplessi e che riteniamo sbagliato». Per Conte, la via maestra è un’altra: lo ius scholae, la riforma che darebbe la cittadinanza ai figli di immigrati che completano un ciclo scolastico in Italia. Un progetto che, secondo l’ex presidente del Consiglio, ha già trovato aperture in Forza Italia e in Azione. «Vediamo se sono chiacchiere o se si vuole davvero fare sul serio», ha punzecchiato Conte. E subito dopo, un affondo diretto a Magi e ai radicali di +Europa: «Si accontenteranno di aver piantato una bandierina o convergeranno su una riforma vera e concreta?».
La risposta di Riccardo Magi non si è fatta attendere. Il segretario di +Europa ha bollato come “sconcertante” la posizione di Conte. «Parla come se fosse sempre stato dalla parte di chi difende lo ius scholae – ha replicato – ma quando era a Palazzo Chigi, ha portato i tempi di attesa per la cittadinanza da due a quattro anni, e poi a tre. È incredibile che ora ci dica che siamo stati noi ad allontanare la soluzione». La polemica si è fatta ancora più accesa sui social, dove Magi ha difeso il referendum come “l’unico modo per riportare il tema nel dibattito, visto che in Parlamento è sparito dal 2017”.
Il botta e risposta ha evidenziato un’altra crepa nel cosiddetto campo largo, che dovrebbe unire Pd, Cinque Stelle e le forze più piccole di centrosinistra. Ma la cittadinanza è un tema che divide da anni, anche dentro lo stesso Pd. Lo sa bene Magi, che ai cronisti di Montecitorio ha ricordato come «una parte dell’elettorato democratico non sia convinta, perché il partito ha inseguito le politiche di destra sull’immigrazione. E quando insegui la destra, contribuisci a creare un’opinione pubblica di destra». Le prime analisi dell’Istituto Cattaneo confermano questa spaccatura: tra i votanti Pd alle Europee del 2024, fino a un quinto ha espresso un voto negativo sul quesito cittadinanza.
Intanto, nel Pd qualcuno prova a trovare una via d’uscita. Simona Malpezzi, senatrice riformista, ha detto chiaramente che “il referendum sulla cittadinanza non va archiviato. Da lì bisogna ripartire, con lo ius scholae come punto di partenza”. Per Malpezzi, il Pd deve riscoprire la sua vocazione maggioritaria e guidare una coalizione ampia. Ma la strada appare tutta in salita.
In questo scenario, la destra assiste con un mezzo sorriso. Perché le divisioni sul tema della cittadinanza riflettono un disagio più profondo: la difficoltà di tenere insieme una coalizione in cui le differenze sono ormai più evidenti delle convergenze. E mentre Conte e Magi si scambiano frecciate, Tajani e Meloni possono limitarsi a dire che «l’Italia non è pronta» e a raccogliere i frutti di un’opinione pubblica sempre più spaventata e diffidente.
Il referendum perso non chiude la partita. Ma la partita, per il centrosinistra, è tutta da ricominciare.