Mentre la giunta Occhiuto 2.0 muove i primi passi, nel campo dell’opposizione tutto tace. Sembra essere arrivati a quella pace dei sensi che non ammette più alcuna reazione o sussulto di orgoglio. Lo evidenzia una chiacchierata con un vecchio amico, che mi illumina con la semplicità di una frase, che racchiude tutto il suo acume: “Almeno una volta qualcuno si sarebbe dimesso il giorno dopo, o quanto meno, in tanti avrebbero chiesto che cadessero delle teste, poi si lamentano che la gente non va più a votare”. L'analisi delle recenti elezioni regionali calabresi, se guardiamo bene, rivela una correlazione profonda e strutturale tra due fenomeni apparentemente distinti ma intimamente connessi: da un lato l'astensionismo crescente dell'elettorato, dall'altro la progressiva fossilizzazione delle strutture partitiche, ormai impermeabili sia alla democrazia interna che alla cultura della responsabilità politica. Così mentre da una parte nessuno è disposto a cedere la propria poltrona, dall’altra i cittadini cedono la propria tessera elettorale.

Il dato di partenza: quando le urne parlano attraverso il silenzio

L'astensionismo in Calabria non è più un'anomalia statistica ma una costante politica. Gli elettori non disertano semplicemente le urne per disinteresse: esprimono attraverso l'assenza un giudizio radicale sulla rappresentanza. Questo silenzio elettorale è il sintomo più evidente di una crisi di legittimità che affonda le radici nella percezione – sempre più diffusa e fondata – che il voto non modifichi sostanzialmente né le politiche né le classi dirigenti, che trovano sempre il modo di dire di aver vinto, senza mai un’autocritica reale che porti a fare un passo indietro o persino a mettersi da parte per dare spazio ad altri, dopo il terzo fallimento di fila.

La morte della democrazia interna

Parallelamente, all'interno delle organizzazioni partitiche si è consumata una trasformazione antropologica. I partiti calabresi – come del resto quelli nazionali, ma qui con una evidenza ancora più marcata – sono diventati strutture oligarchiche, dove:

  • Le decisioni verticali hanno sostituito il confronto democratico: i congressi sono diventati ratifiche rituali di scelte già prese, le assemblee spazi di acclamazione più che di dibattito. Le correnti non sono più luoghi di elaborazione politica differenziata ma clientele organizzate attorno a singoli leader (?!).
  • La mancanza di responsabilità politica è diventata normalità: una volta, una sconfitta elettorale implicava conseguenze politiche. Il segretario sconfitto si dimetteva, la dirigenza veniva rinnovata, si apriva un congresso straordinario. Oggi, dopo qualsiasi risultato – per quanto catastrofico – la classe dirigente rimane immutata. Nessuno si dimette volontariamente, ma soprattutto nessuno più chiede le dimissioni.
  • Il coraggio della rottura è scomparso: la cultura politica della conflittualità costruttiva, che prevedeva la possibilità di mettere in discussione leadership inadeguate, è stata sostituita da un conformismo omertoso. Chi critica viene isolato, chi propone alternative viene marginalizzato.

La connessione sistemica: un circolo vizioso che si autoalimenta

Un minimo di analisi sociologica e politologica, mi scuseranno i docenti della materia per le semplificazioni, permette di individuare il nesso causale tra questi due livelli:

1. La desertificazione democratica interna produce classi dirigenti autoreferenziali

Quando i meccanismi di selezione interni ai partiti si fossilizzano, emergono non i più capaci o i più rappresentativi, ma i più abili nel gestire equilibri interni, nel mediare tra correnti, nel mantenere fedeltà personali. Queste figure, proprio perché prodotte da un sistema oligarchico, non hanno né l'autorevolezza né la legittimazione per rappresentare istanze collettive.

2. L'assenza di responsabilità politica comunica agli elettori l'inutilità del voto

Quando i cittadini vedono che a prescindere dai risultati elettorali le facce rimangono sempre le stesse, che non esistono conseguenze per i fallimenti, che le promesse disattese non producono ricambi, maturano la convinzione che il loro voto sia irrilevante. Se le sconfitte o le vittorie non producono cambiamenti, perché votare?

3. L'omologazione interna si riflette nell'indistinguibilità dell'offerta politica

Partiti senza democrazia interna producono programmi standardizzati, leader intercambiabili, narrazioni indistinguibili. Basti pensare alla frase pronunciata dall’ex Rettore dell’Unical, il prof. Leone, quando si lasciò scappare che sia il centrodestra che il centrosinistra gli aveva proposto una candidatura. Insomma, chiunque abbia un minimo di visibilità, un ruolo, un’autorevolezza si può tramutare nel candidato buono per tutte le stagioni. L'elettore calabrese, di fronte a questa uniformità sostanziale mascherata da contrapposizioni rituali, sceglie razionalmente l'astensione come forma di protesta silenziosa, o peggio, come espressione di una disillusione ormai cronicizzata.

Il caso calabrese come paradigma nazionale

La Calabria rappresenta un laboratorio estremo di dinamiche presenti a livello nazionale. Qui, la sovrapposizione tra potere partitico, sistema clientelare e controllo territoriale rende ancora più evidente il cortocircuito democratico. I partiti calabresi sono spesso articolazioni territoriali di centri decisionali esterni, privi di autonomia reale e quindi ancora più impermeabili alla pressione dal basso.

La specificità calabrese sta nell'accelerazione di processi comuni: ciò che altrove avviene in modo più sfumato, qui emerge con crudezza. L'astensionismo non è solo disaffezione generica ma rifiuto consapevole di legittimare un sistema percepito come autoreferenziale e impermeabile.

Le conseguenze sistemiche: verso una democrazia senza demos

Questa doppia crisi – della partecipazione elettorale e della democrazia interna – produce effetti devastanti sulla qualità democratica:

Legittimazione sempre più fragile: classi dirigenti elette da minoranze sempre più ristrette governano con mandati sempre meno solidi, in un circolo vizioso che erode la legittimità stessa delle istituzioni.

Selezione avversa della classe politica: l'assenza di meccanismi meritocratici e responsabilizzanti favorisce non i migliori ma i più adattabili al sistema oligarchico, perpetuando l'inadeguatezza.

Radicalizzazione delle alternative: il vuoto lasciato dai partiti tradizionali viene riempito da forze antisistema che capitalizzano sulla disaffezione, spesso senza proporre alternative realmente democratiche.

La scomparsa del coraggio politico

Particolarmente significativa è la sparizione di quella che potremmo definire "cultura della dignità politica". Un tempo, un leader sconfitto considerava le dimissioni non solo un atto dovuto ma un imperativo morale. Oggi, questa sensibilità è scomparsa, sostituita da una concezione proprietaria della leadership: le posizioni conquistate sono considerate possessi personali da difendere a ogni costo.

Ma ancora più significativa è la scomparsa di quella base militante che aveva il coraggio di chiedere conto ai propri dirigenti. L'assenza di richieste di dimissioni dopo le sconfitte non testimonia la forza di un leader, ma soprattutto la debolezza.

C’è una via d'uscita?

L'analisi dello scenario calabrese suggerisce che non si tratta di fenomeni separati richiedenti soluzioni separate, ma di un unico processo degenerativo che richiede interventi sistemici:

Rifondare la democrazia interna: reintrodurre meccanismi reali di selezione della classe dirigente, con primarie aperte, congressi deliberativi, limiti reali e chiari ai mandati.

Ricostruire la cultura della responsabilità: stabilire regole chiare che leghino i risultati elettorali a conseguenze politiche automatiche, superando la discrezionalità assoluta che oggi tutti si godono sogghignando, dopo aver fatto spallucce.

Valorizzare il dissenso costruttivo: trasformare i partiti da caserme a luoghi di pluralismo, dove la critica è risorsa e non tradimento personale.

Connettere rappresentanza e territorio: restituire ai livelli territoriali reale autonomia decisionale, superando la ventriloquìa dei centri nazionali.

L'astensionismo è dunque sintomo, non malattia

L'astensionismo calabrese (e italiano) non è la malattia ma il sintomo più visibile di una patologia profonda: la trasformazione dei partiti da strumenti di partecipazione democratica a macchine oligarchiche di gestione del potere. Fino a quando non si affronterà questa radice del problema, ogni appello al "dovere civico" del voto suonerà come un'ingiunzione ipocrita rivolta a cittadini che hanno semplicemente smesso di credere che la loro partecipazione possa fare la differenza.

La riconnessione tra cittadini e politica passa necessariamente attraverso la democratizzazione interna delle organizzazioni partitiche. Solo partiti realmente democratici, dove il merito conta più della fedeltà, dove le sconfitte hanno conseguenze e dove esiste lo spazio per mettere in discussione leadership inadeguate, potranno ricostruire quella fiducia oggi così drammaticamente assente nelle urne e nelle vite dei calabresi.

*esperto di comunicazione politica