Ogni anno, puntuale come un rito che non diverte più nessuno, la legge di bilancio si trasforma nel più affollato suk istituzionale del Paese. Le cifre parlano da sole: oltre 5.500 emendamenti tempestano il testo del governo, trasformando la Commissione Bilancio in una Vucciria degna di Guttuso, con colori accesi, mani levate, urla sovrapposte e un odore persistente di interessi che si accavallano fino a diventare indistinguibili.

Dentro questo caos, alcuni emendamenti sono tecnici, importanti, anche seri: pensioni, sanità, transizione ecologica, scuola, sicurezza, industria. Sono le proposte che spostano miliardi e che provano – almeno sulla carta – a correggere una manovra scritta più nei ministeri che nelle aule parlamentari. Altri, invece, portano il marchio invisibile di lobby e comitati ristretti: commi apparentemente innocui che nascondono favori, proroghe, concessioni e piccoli spostamenti di potere. Norme che nessuno ammetterà mai di aver ispirato, ma che arrivano puntuali come messaggi in bottiglia da mondi spesso più influenti dei gruppi parlamentari.

E poi c’è il resto: il grottesco, il folcloristico, l’imbarazzante.

E qui l’inventiva dei nostri parlamentari – di maggioranza e opposizione – non conosce confini.

Nel campionario 2026 spiccano, per esempio, la tassa agevolata sull’oro: un emendamento che permette di far emergere lingotti e monete “dimenticate” nei cassetti, pagando un’aliquota ridotta al 12,5% invece del 26. Un condono di lusso travestito da lotta all’evasione.

Accanto ci troviamo il bonus tombe, con detrazioni fiscali per restaurare cappelle e sepolcri familiari. Una proposta reale, non uno sketch di Crozza: un modo elegante per rendere felici pochi elettori con immobili… ultraterreni.

Poi c’è la sanatoria edilizia 2003 bis, che riapre a distanza di ventidue anni la porta a vecchie irregolarità, purché non si trovino in zone rosse. Una sorta di macchina del tempo legislativa che guarda al passato più che al futuro.

E sempre nella categoria “perché proprio qui?”, troviamo gli emendamenti per finanziare sagre, rievocazioni storiche, feste patronali, insieme a proposte per deroghe urbanistiche cucite su singoli comuni, opere pubbliche microscopiche e richieste da 50mila euro infilate dentro la legge che deve reggere i conti del Paese.

L’opposizione non è da meno: l’invenzione del superbonus museale privato, la No Tax Area a 15.000 euro senza coperture, la riapertura infinita di Opzione Donna, misure ambiziose ma irrealistiche da finanziare. E anche questo fa parte del gioco: proposte-simbolo, destinate a non passare ma utili per dire “noi ci abbiamo provato”.

Il risultato finale è una gigantesca fiera legislativa. Una Vucciria normativa dove si vende di tutto: sogni, voti, territori, nostalgie, favori, bandierine. E dove, paradossalmente, i parlamentari si affannano sapendo già come finirà.

Perché finiscono sempre allo stesso modo. Con la mannaia della fiducia.

Il governo Meloni, in poco più di due anni, ha già superato quota 100 voti di fiducia, un record assoluto nella storia repubblicana. Mai un esecutivo era arrivato a tanto. Ma la verità è più scomoda: questo processo non inizia oggi. Da vent’anni la centralità del Parlamento si restringe, anno dopo anno, voto di fiducia dopo voto di fiducia, decreto dopo decreto.

Oggi i grandi dossier non passano più da Montecitorio o Palazzo Madama. Le decisioni vere maturano altrove: in riunioni ristrette con la presidente del Consiglio, i due vicepresidenti e un pugno di ministri. Le maggioranze parlamentari vengono informate, quando va bene; ascoltate, raramente; coinvolte, quasi mai. E i parlamentari, spesso più preparati dei ministri stessi, restano a guardare – o a presentare emendamenti destinati a dissolversi.

Alla fine, dei 5.500 emendamenti presentati, ne sopravvivranno forse una ventina. Gli altri resteranno in un file eliminato, in un comunicato stampa, in un’intervista indignata.

E così la legge di bilancio si trasforma, ogni anno, nell’ennesima prova di un sistema che rischia il ridicolo e sfiora la tragicommedia. Un grande mercato fuori controllo, dove il Parlamento agita le mani ma nessuno lo guarda più davvero.

Una scatola vuota che fa rumore. Ma sempre più vuota.