La Calabria, in agosto, ha il respiro lento delle cose che sopravvivono al tempo. Le colline dormono sotto il sole, il mare si stende come una lastra d’acciaio lucente, e i paesi, a mezzogiorno, sembrano sospesi in una cartolina di silenzio. Ma basta un colpo secco — un portone che sbatte, una voce che annuncia la notizia — e la quiete si spezza: il presidente della Regione, Roberto Occhiuto, si è dimesso. All’improvviso. Senza preavviso, come un capitano che abbandona la nave in piena traversata, lasciando passeggeri ed equipaggio a guardarsi attorno, spaesati, mentre le onde si alzano.

Le motivazioni ufficiali? Una nebbia fitta. Qualche apparizione in tv, qualche frase di circostanza, retroscena bisbigliati nei corridoi, inchieste giudiziarie pronte a esplodere come mine sotto il tavolo del prossimo Consiglio regionale, intercettazioni già in circolazione. Nella sua stessa maggioranza, nessuno ha davvero capito. O peggio: tutti hanno capito, ma nessuno osa dirlo. E così con un colpo di mano si va a votare quindici mesi prima del previsto, con una campagna elettorale da mettere in piedi in piena estate. Una mossa che ha irritato anche i fedelissimi e aperto crepe profonde tra gli alleati.

E qui comincia il paradosso. Davanti a un’occasione politica rara — un avversario in reale ritirata, al di là delle dichiarazioni di facciata, il tempo compresso, un’opinione pubblica disorientata — il centrosinistra calabrese fa quello che sa fare meglio: prima si agita, poi si paralizza, impietrito. La strada è in discesa, ma loro inchiodano e si ribaltano. È una specialità di casa.

Le riunioni si susseguono, ma sono sempre “interlocutorie”. Eufemismo che significa: diffidenze, sospetti, schermaglie da corridoio. Sul tavolo ci sono nomi: Tridico, Baldino, Orrico, Stasi, Irto, Falcomatà. Nessuno si decide, nessuno si sacrifica per l’unità. E il tempo scorre. Entro quarantotto ore dovrebbe esserci un candidato forte, credibile, capace di parlare a tutto lo schieramento. Appunto, dovrebbe.

Il centrodestra, con Berlusconi prima e Meloni oggi, ha dimostrato che un federatore serve: piaccia o no, tiene insieme ciò che sarebbe destinato a dividersi. Berlusconi usava colle discutibili, ma le usava. Il centrosinistra, a livello nazionale, parla di “campo largo” e invece si frantuma appena prova a toccarsi.

Nelle parole di Matteo Renzi, la Calabria sarebbe dovuta essere il laboratorio da cui tutto sarebbe partito: un nuovo assetto politico capace di aprire la strada a una serie di vittorie in tutto lo Stivale. Ma siamo sicuri che questo si voglia realmente? Perché, se guardiamo alla Calabria, ciò che viene in mente è un cantiere aperto e, con esso, idee tutt’altro che chiare.

Le uniche sintesi in Calabria, negli anni, sono state compromessi fragili e candidature dell’ultimo minuto, puntualmente destinate a fallire.

Lo abbiamo visto con Nuccio Fava, con Pippo Callipo e, più recentemente, nella scelta di preferire a un candidato come Luigi de Magistris — già sindaco di Napoli, profilo noto e con capacità di mobilitazione — una figura politicamente fragile come Amalia Bruni. Così si è spento in partenza ogni entusiasmo, consegnando alla destra un’altra vittoria senza nemmeno combattere.

Il problema non è solo chi mettere in cima al manifesto, ma che tipo di Calabria si vuole raccontare. Si vuole rinnovare davvero? Mettere un limite ai veterani che siedono in Consiglio da troppe consiliature? Dare spazio alla società civile? O riciclare figure in fase calante in cerca di ricollocazione, che farebbero meglio a rassegnarsi al pensionamento politico: al di là delle loro convinzioni, porterebbero più voti via di quanti ne farebbero guadagnare? Si candideranno volti nuovi, credibili e capaci di parlare fuori dalle stanze di partito, o si continuerà a bussare alle stesse porte già chiuse?

La verità è che questa campagna elettorale, per tempistica e contesto, non avrà movimenti di piazza come le Sardine in Emilia-Romagna. Qui la mobilitazione dal basso è stata sacrificata ancora prima di nascere. Eppure, la storia recente parla chiaro: i momenti in cui il centrosinistra ha ottenuto i suoi risultati migliori sono stati la rottamazione di Matteo Renzi che, pur in modo controverso, scosse un sistema addormentato; il boom del Movimento 5 Stelle, nato da una volontà di rinnovamento radicale; la visione e la narrazione di una nuova Puglia di Nichi Vendola; la vittoria di Stefano Bonaccini in Emilia-Romagna, spinta anche dall’energia partecipativa delle Sardine; e, più di recente, la vittoria a Genova di Silvia Salis. Momenti diversi, un filo rosso comune: partecipazione, coraggio e discontinuità. Tre parole che il centrosinistra sembra aver smarrito, ma che restano l’unico antidoto al logorio. Piaccia o no, questi sono dati. E con i numeri non si gioca, ammoniva Einstein: “Non possiamo risolvere i problemi con lo stesso pensiero che abbiamo usato quando li abbiamo creati”.

Oggi, l’elettore di centrosinistra guarda e scuote la testa. Non è solo deluso: è stanco di assistere alla stessa commedia in replica. Perché sa che questa potrebbe essere l’ultima occasione, e vederla sprecata è peggio che non averla mai avuta.

Se nelle prossime ore non arriverà un candidato che incarni un progetto vero — non uno slogan, non un volto da cartellone, ma un’idea di futuro — il centrosinistra consegnerà al centrodestra una vittoria facile, quasi senza combattere.

E allora non sarà un suicidio politico: sarà una resa. E resterà nella memoria della Calabria come certi pomeriggi d’estate, quando il cielo promette tempesta e nessuno si prende la briga di chiudere le finestre.