Marina e Pier Silvio si sono parlati. Più volte. E non certo per decidere chi si prende Ferragosto a Villa Certosa. Il nodo era un altro, ben più spinoso: Forza Italia. Perché così com’è, dicono entrambi, non ha più senso. Il partito fondato da Silvio nel 1994 è ormai ridotto a succursale di via della Scrofa. E Antonio Tajani, più che un leader, sembra il maggiordomo in livrea di Giorgia Meloni, intento a versare il tè mentre – in salotto – sperando di meritarsi il biglietto per salire da Presidente al Quirinale.
Ed è stato proprio questo dettaglio – il sogno fino ad ora inconfessato del ministro degli Esteri forzista scoperto casualmente durante una cena tra pochi intimi – a far saltare il tappo. Ma come, noi ti affidiamo il partito di papà e tu flirti con Giorgia per salire al Colle?


Si dice che Pier Silvio non abbia gradito neppure un po’ questo inatteso attivismo di Tajani. Così il principe del Biscione, già stuzzicato dall’idea di una discesa in campo alle Politiche 2027, ci ha dormito qualche notte su e poi ha chiesto un sondaggio. Il risultato? Sconvolgente. Forza Italia, oggi stimata all’8%, deve la metà dei suoi voti, cioè un robusto 4%, al solo ricordo di Silvio Berlusconi. Ma c’è di più. Se “un Berlusconi” si candidasse, il consenso potrebbe quasi raddoppiare. Su su su, oltre il 15%. E se quel Berlusconi si chiamasse Pier Silvio – e non Marina – il partito volerebbe ancora più in alto.

Altro che management televisivo. Pier Silvio ha un profilo che fa presa. Piace di più. Più giovane, più sobrio, meno severo della sorella. L’elettorato forzista lo vedrebbe bene con la cravatta blu e il tricolore d’ordinanza. Qualcuno lo immagina già premier, magari con Giorgia costretta a chiedergli udienza. Altri, più realisti, lo temono come mina vagante del centrodestra: uno che può scippare consensi alla Meloni e riportare al centro quel centro che oggi è evaporato.

Marina, invece, predica prudenza. È contraria da sempre alla discesa in politica del fratellino, ma – e qui il punto – non gli sbarrerà la strada. Anzi. Se decidesse di entrare davvero nel campo da gioco, lo appoggerebbe senza se e senza ma.
In queste settimane ha incontrato (rigorosamente in privato) governatori, parlamentari e ras di provincia. Roberto Occhiuto, Alberto Cirio, Deborah Bergamini, Stefano Benigni. Tutti, uno dopo l’altro, le hanno detto la stessa cosa. Tajani? Bravo a farsi vedere in tv, impeccabile nel dosare sorrisi e rassicurazioni. Ma Forza Italia non si guida da Bruxelles, né da un ufficio ministeriale dove, più che dettare la linea, si passano le giornate a evitare di contrariare Giorgia.

Nel frattempo, il diretto interessato cerca di blindarsi. Ha convocato un Consiglio nazionale con l’intento – neanche troppo velato – di modificare lo statuto del partito. Obiettivo: restringere la platea dei votanti ai congressi, eliminare pacchetti di tessere dell’ultimo minuto e rendere più difficile qualunque manovra interna. Il suo sogno? Vincere il congresso in anticipo, schiacciare le fronde interne e presentarsi nel 2027 come candidato naturale del centrodestra moderato. Peccato che nel partito, oggi, di naturale ci sia solo il malcontento.

La fronda interna, intanto, si agita. Non solo Ronzulli e Cattaneo, ma anche la stessa Bergamini, vicesegretaria ambiziosa con l’orecchio sempre sintonizzato su Arcore. Vorrebbe diventare capogruppo alla Camera, al posto di Barelli, ma Tajani resiste. Troppa confidenza con Marina, troppi occhi puntati addosso. La guerra, seppur silenziosa, è già cominciata. E se Forza Italia dovesse diventare davvero la nuova casa di Pier Silvio, molti colonnelli attuali rischiano di trovarsi sfrattati.

Nel frattempo, sotto la Madonnina, si lavora al lancio di un manifesto “liberale 2.0”, versione riveduta e corretta di quello del ’94. L’idea è trovare facce nuove, possibilmente civiche, da spendere alle prossime amministrative. In pole per Milano – terreno di conquista conteso da Meloni e La Russa – c’è la suggestione di un candidato moderato e laico, con profilo professionale e zero radici politiche. Un modo per rilanciare l’identità di un partito che oggi fatica a dire persino che cosa rappresenta.


E mentre Tajani prepara la sua barricata statutaria e sogna il Colle 2029 con il supporto della Meloni, ad Arcore si fa la conta. Non dei voti, ma delle probabilità. Se Pier Silvio decidesse davvero di scendere in campo, avrebbe due strade: o scalzare la premier e candidarsi a guidare l’Italia, oppure prendere gli ordini dalla stessa leader che oggi considera Tajani un utile servitore. Uno scenario che fa sorridere i fedelissimi del Cavaliere: «Silvio – dicono – non avrebbe mai preso ordini da nessuno».

Pier Silvio non è Silvio, ma qualcosa l’ha imparata. E nel suo cassetto, tra le scalette dei palinsesti e i report pubblicitari, c’è già la bozza di un discorso. Si apre così: «Sono un imprenditore, ma soprattutto un italiano. E non posso più restare a guardare». Vedremo se, alla fine, lo tirerà fuori. O se Forza Italia, tra un maggiordomo e un’eredità politica ingombrante, finirà davvero per diventare solo una voce nostalgica nel libro dei ricordi.