Sandokan, ovvero una telenovela venezuelana in versione Pirati dei Caraibi. Can Yaman (nomen omen) ha il kajal (solo il kajal) di Johnny Depp e una fanbase agguerrita in stile vecchi tempi, quando ci si accapigliava per Nik Kamen. Nel cast internazionale si riconoscono Owen Teale (il maledetto Lord Comandante di Trono di Spade), il tipo di Gossip Girl e John Hannah ormai in terza età (lontanissimi i tempi di Sliding Doors e Quattro matrimoni e un funerale).

La serie, a quanto pare, ha fatto grandi ascolti in prima battuta e poi un calo fisiologico, e non serve ribadire l’ovvio: non tutto ciò che piace è bello. Ad esempio, le soap turche – e prima ancora quelle spagnole e, ancora più indietro, quelle argentine e venezuelane (le varie Donna del mistero, Manuela, Topazio) – hanno fatto e fanno ascolti pazzeschi, con livelli di fidelizzazione da far impallidire Netflix, Prime e Disney messi insieme. Possiamo dire che si tratta di serie capolavoro? No. Possiamo dire che il livello di recitazione è da Actor’s Studio? Figuriamoci.

L’ultimo prodotto che sta andando in onda su Canale 5 si chiama La notte nel cuore. Gli uomini hanno tutti i baffi – non baffetti: proprio baffoni – e le donne la permanente e un sacco di gioielli. La scena scelta per il riassunto (si suppone un concentrato delle scene migliori della puntata precedente) vedeva due signore, abbigliate come per buttare l’umido, discutere una scelta difficilissima: «Te la sentiresti di fare la vicepreside?», chiede una all’altra, in un crescendo di tensione musicale. In un’altra clip, un giovane attore cade da quattro gradini – ma male – e scivola sulla balaustra tirandosela dietro.

Tuttavia la gente adora questa serie. Così come adorava Terra amara, Il Tradimento e molte altre telenovele partorite in grembo a una Turchia che è il terzo Paese al mondo, dopo Stati Uniti e Inghilterra, per l’esportazione di serie.

In queste storie succedono un sacco di cose: eventi a ripetizione, incastri, trame fitte, amori, tradimenti, rapimenti. Tutto va velocissimo e gli spettatori non stanno a guardare se gli attori si muovono come mimi nel numero della corda, se sanno recitare, se i fondali sono credibili o sembrano gli acquerelli della recita di Pasqua, o se la fotografia è giusta: vogliono solo sapere se Aras tornerà a casa sano e salvo e sposerà Ceren.

La questione Sandokan viaggia su tre livelli: quello artistico, quello campanilistico e quello politico (sbriciolato negli altri due e molto meno interessante, forse più noioso di un bingewatching di Sandokan).

Partiamo da quello artistico.

Ormai si ricicla di continuo: non ci sono più buone idee e le dirigenze sono ancora abitate da persone avanti con l’età che, invece di puntare su storie nuove di zecca – addirittura (osiamo) su sceneggiature originali che non parlino di medici in corsia o detective – preferiscono andare sul sicuro, rispolverare cose vecchie, adattarle all’oggi e catturare il target medio senza grosse aspettative (che poi è la maggioranza), con qualcosa che è già stato sperimentato con successo (vedi la versione mitologica con Kabir Bedi).

Non era così prima: c’erano curiosità, rigore e una serietà estrema nella fattura e nella scrittura delle produzioni; la qualità era il minimo sindacale. Una volta avevamo in Rai Cristoforo Colombo (quello del 1985 con Gabriel Byrne, Faye Dunaway ed Eli Wallach, di cui fecero poi i libretti venduti alla Standa), Pinocchio di Comencini (capolavoro), Il segreto del Sahara con la favolosa colonna sonora di Morricone (anche quella serie era tratta da Salgari) e l’iconica testa di Miguel Bosé nella sabbia.

Da essere boutique della tv a diventare Shein il passo è stato graduale ma inevitabile, e adesso siamo tutti lì a mettere nel carrello le gonne di poliestere perché comunque fanno figura.

Questa produzione Rai, però, non è da discount: è costata poco più di 30 milioni di euro, ma a vederla non sembra affatto.

Pensate che le prime stagioni di Trono di Spade (produzione qualitativamente pazzesca) costavano 6 milioni a puntata: e c’erano effetti speciali, trasferte continue, un cast straordinario con attori non certo di terza fila, trucco e parrucco da Emmy, una crew di centinaia di persone, la ricostruzione certosina non di una location ma di decine, alla perfezione; un comparto scrittura eccezionale, musica e opening credits che ancora rivediamo con emozione.

Sandokan è costato quasi 4 milioni di euro a puntata e ci troviamo bianchi sfondati; luci calibrate non male: malissimo; fotografia da fiction basica, contrasto inesistente (con conseguente effetto cartongesso); movimenti macchina da Occhi nel cuore (e si rimpiange la mancanza di Stanis La Rochelle); musichetta da libreria free; scene d’azione quasi imbarazzanti; spiegoni continui.

Ma piace, è piaciuta. Perché evidentemente tanti, tantissimi, non sanno che c’è molto di meglio (e c’è stato) e che questa è una roba cheap travestita da kolossal.

Parte campanilistica.

La serie è stata girata anche in Calabria (e in Toscana, Thailandia, Tuscia). Questo dato è diventato uno slogan (politico, vedi sopra): una bandiera, un argomento da conferenze, reel, video, note stampa, post. Insomma: l’abbiamo buttata in caciara (anche se i minuti in cui la Calabria appare in modo riconoscibile sono pochi) iniziando a spulciare le scene per cercare la spiaggia dove abbiamo piantato le ciabatte quest’estate. Leggendo sui social, la maggior parte delle critiche alle critiche non è mai artistica: sono difese partigiane per partito preso. Se è calabrese, allora è fantastico. Questa è la regola.

Un modo come un altro per essere trattati come il bambino che la maestra mette al centro del girotondo perché gli altri non gli vogliono dare la mano.

Insomma, qui ogni tanto girano film e fiction come dappertutto: possiamo esserne fieri, lieti, sorridere, dire “dai, bello”, ma senza esagerare, senza cadere nel ridicolo e senza offenderci. È una fiction come ce ne sono altre: non porterà miracoli, non porterà orde di turisti, non ci farà essere migliori di quello che siamo, perché questo dipende soltanto da noi.