“Welcome to Derry” è un acquisto a buon mercato che odora di benzene. Lo compri a poco e poco vale. Gli scritti di Stephen King – considerando la sua produzione migliore – sono favolosamente agée, fulminanti e profondi: arrivano come una freccia e ti sbocciano dentro. Ma la resa filmica della serie, fresca di Sky, è al livello delle soap turche del momento.

I registi Andy Muschietti e Mike Flanagan si sono ormai autoproclamati Atlante: uomini che, con scatto muscolare, hanno deciso di reggere da soli il peso dell’immaginario di King, ingurgitando le frasi sottolineate in fretta nei romanzi capitati a tiro, per restituire alle nuove generazioni – infarcite quotidianamente di prodotti di bassa lega e sempre più lontane dalle sale e da una certa televisione – fatterelli mainstream.

La formula estetica e semantica della serie di Muschietti in onda su Sky, prequel di It, capolavoro dello scrittore del Maine, è quella ormai logora del serial contemporaneo: dialoghi piatti, fotografia aranciata che bagna ogni scena (come se tutto fosse perennemente esposto a Ovest dell’Apocalisse), uso criminale del green screen, scene di cartone, ragazzini pettinati bene, tanto stupore, qualche trovata splatterina di plastica importata da qua e là. E urla, tante urla.

Il risultato muschiettiano è un imbarazzante pastrocchio, ma se ne parla e si guarda: un masochismo che si spiega scientificamente citando la storiella di Woody Allen in Io e Annie, quando una vecchietta nel pensionato dice: «Ragazza mia, il mangiare qua dentro fa veramente pena», e l’altra risponde: «Sì, è uno schifo… ma poi, che porzioni piccole!»

Grazie all’assuefazione al mediocre, che va bene purché il rancio sia abbondante, si moltiplicano – come batteri in fase log – le produzioni che scavano, recuperano, rivestono e ripropongono a ritmo industriale storie senz’anima, ma con un bel vestito da ballo a misura di Gen Z.

Welcome to Derry, a voler essere generosi, è il prodotto ideale da guardare mentre si guarda altro: lo smartphone, la lista della spesa, la ricetta della crostata con l’anello traforato. Sono immagini con la stessa potenza emotiva della musica da lounge bar: fanno compagnia, come la playlist del rumore del mare mentre spolveri la libreria o cerchi l’accendino sotto il divano, ma null’altro.

Con It – volumi 1 e 2 – Muschietti aveva già mostrato le sue intenzioni: ripulire, lucidare, candeggiare. Togliere il grasso dalle catene delle biciclette, rendere tutto più luminoso e innocuo. La paura, nei suoi film, è totalmente assente; ma ciò che pesa davvero è la riduzione a caricatura delle idee di King, che raccontavano un mondo sotterraneo e domestico, dove non contava il ghigno del pagliaccio, né la giostra horror, ma l’incomunicabilità tra adulti e ragazzi, tra genitori e figli.

Il buio di King, nei romanzi, ti guardava dentro. Rimestava qualcosa che tenevi nascosto e ti lasciava galleggiare – davvero – in un mondo capovolto, senza nessuno a tirarti fuori dall’incubo, senza un raggio di sole a scaldare la mattina. Finire un libro di Stephen King era un dolore, una piccola ferita che non volevi curare per paura che svanisse quel viaggio, che fosse una maratona a piedi dal Canada al Maine, al passo di 4 miglia l’ora e senza mai fermarsi, o una discesa nei Barren a cercare un palloncino.

Quasi nessuna delle trasposizioni cinematografiche dei suoi romanzi, novelle o racconti, è all’altezza dei suoi scritti: la maggior parte è da buttare via.

Chi è riuscito a catturare l’essenza di King - quella che forse sfugge anche a lui, che elogia spesso gli adattamenti più anodini - lo ha fatto per due ragioni: o ha compreso fino in fondo quelle storie (Reiner, Darabont), oppure ha osato raccontare altro (Kubrick).

Tutti gli altri giocano a fare i bari: prendono la schiuma delle parole di King e lasciano la sostanza giù, dove sono nascoste le cose preziose, perché le parole rimpiccioliscono cose che finché erano nella vostra testa sembravano sconfinate, e le riducono a non più che a grandezza naturale, quando vengono portate fuori (parole sue). Chi si ricorda la prima volta che ha visto un essere umano morto? Era in un bosco vicino ai binari di una ferrovia, e chi ci ha portato per mano lì era Stephen King. L’unico modo per amarlo - ora - è leggerlo.