È la terza raccolta di racconti e novelle che Alvaro pubblica nell'arco di appena due anni, dal 1929 al ’30; ed è la più tarda, come dimostra la datazione dei singoli ‘pezzi’ narrativi (ventuno): tutti scritti o pubblicati in rivista o sulla «Stampa» di Torino fra il 1928 e la seconda metà del ’30, quando La signora dell'isola vide la luce nelle ultime settimane di quell'anno.

Non è puntiglio documentario. Questa raccolta, che coagula i temi e le linee dell’Alvaro futuro, mostra uno scrittore che si è risolutamente incamminato su una strada tutta sua, quella che già si profilava nelle ultime narrazioni di Misteri e avventure. E non è certo un caso che ad aprirla sia la novella che le dà il titolo complessivo: nella sua ambientazione insulare, eoliana, sembra dare l’addio agli spazi aperti, perché gran parte delle altre narrazioni si svolgono in una dimensione cittadina o metropolitana. E in essa lo squallore delle stanze mobiliate e degli oggetti che le arredano divengono il riflesso di un’angoscia sottile da isolamento, di un’atonia esistenziale che denuncia una mera sopravvivenza fisica dei personaggi.

Già nell'arcipelago, in una villa isolata, a dominare è la solitudine: una donna bionda, dal viso «barbarico, ricordo di terre diverse», accumula parole su parole, in un «italiano incerto» e «nel freddo immenso della notte», rivolgendosi a un uomo a lei sconosciuto pur di eludere l’isolamento, pur di avere l’illusione di un contatto umano, poi interrotto dal tentato approccio carnale del compagno, sopravvenuto, dell'io narrante. Con la seconda novella (Qualcuno ha suonato) siamo già nello spazio carceriale di esistenze difettive: in una città imprecisata, dal «movimento disperso», un uomo solo è attento ai rumori della vita, da cui si sente emarginato; e apre la porta a una donna sconosciuta, in cerca di una stanza da affittare, che sembra venuta «a sorreggere la solitudine della casa». A ritmare il racconto è sempre il ricorrere della solitudine; e le parole sommesse possono solo incrinare per un momento «il silenzio animato delle cose». La bacia e poi lei va via: la porta si chiude con un «tonfo lugubre» e lui non sa come si chiama, non la vedrà più e ― se avvenisse ― non la riconoscerebbe.

Non c'è una sola narrazione, fra le ventuno, in cui si realizzi un autentico contatto umano, una vera comunicazione, una elusione ― anche breve ― della solitudine. Alvaro sceglie di adeguare a questa dimensione il modulo narrativo: in un mondo di monadi, di uomini senza congiunzioni, non ci sono parole, se non poche e misere; e il narratore, che solo qualche volta è un ‘io’, non può che intuire da labili segni le storie ipotizzate, ricostruendole dall'interno con una penetrazione sensitiva e ossessiva, monologica e fascinosa. E le storie si compaginano l’una con l’altra, nel loro fluire, attraverso sottili legami e temi che si propagano (un esempio per tutti: Partenza e Le strade fatte a vent’anni, unite dal grande soggetto della prima guerra mondiale).

In questo universo umano di isole solitarie l'amore è un sentimento vissuto da una parte sola, in modo delusivo, nell'imperare dell'egoismo maschile; e viene spiato con invidia da un uomo che è chiuso in un legame matrimoniale senza più colloquio (Veder amare). Anche un incontro inaspettato in una sede estera (la consumazione carnale viene lasciata nell’intuitivo) si consuma nel gelo delle anime, quasi con scelta rabbiosa («Taverne Capri»). Il primo viaggio da sola di una giovane donna è vissuto come una recita sul teatro della vita: «il primo bacio l'ha disgustata come la prima sigaretta»; e un attimo apparente di felicità è bruciato dal rivedersi, l'indomani, per dirsi addio (Stagione della signorina). Il motivo pirandelliano della vita come povero teatro di maschere senza identità, come stereotipia di ruoli comportamentali, impronta più di una novella (Teatro della vita romana; Ballo in maschera; Fanciulla al ballo), con l'ultimo esito che delinea stupendamente una perdita interiore dell'innocenza in una adolescente. E una recita quotidiana è anche quella di Dama al tramonto, nel tentativo impossibile di rimuovere il tempo che la incide, impietoso, mentre l'ultimo uomo della sua vita «la lascia piangere senza soccorso» e si prepara a fuggire.

C’è in La signora dell’isola anche un piccolo e denso nucleo di racconti ‘paesani’, come gli altri contrassegnati (con l’unica eccezione dell’elegiaco Il canto di Cosima) dalla solitudine umana, quella in cui vive Il ricco Garzia, che vede ― reso quasi inebetito dalla vecchiaia ― il suo mondo distrutto dalla violenza degli interessi economici contrapposti. E solo nella vecchiaia Foresto ricompone le tessere lontane di un evento cruciale (è stato tradito dalla moglie con il suo migliore amico, che è il vero padre della figlia): il passato riaffiora dolorosamente, rivelando il vero volto della realtà vissuta, senza che il silenzio coniugale di ogni giorno sia incrinato dalla scoperta (Gioia).

La durezza immedicabile della emigrazione traspare dalla solitudine dei due personaggi che ― in una desolata stanza in affitto ― tentano di combattere la tristezza di una domenica senza tepore familiare (Mezzogiorno). Torna invece al paese, dopo venti anni di esilio americano, l'emigrato di I denari, scambiato per il compagno d’emigrazione dalla moglie dell'altro; e si adegua quietamente alla nuova situazione, ribaltando il motivo consueto del ritorno dall’estero attraverso l’assunzione di un’identità diversa. Con movimento inverso si vuole fuggire dalla soffocazione del microcosmo imprigionante (Nasce un paese) o non ci si vuole tornare (lo studente ribelle di L'orologio). Ma gli effetti maggiori di scrittura narrativa vengono raggiunti lì dove Alvaro coglie il momento cruciale dell’incontro e della frizione tra mondi diversi, quando esso viene messo stupendamente a fuoco attraverso i mutamenti psicologici provocati dal nuovo contesto, che cancella i legami di un tempo (è la storia di Celina: va a rivedere l’uomo con cui in paese aveva intessuto un muto idillio, suicidandosi dopo essere stata da lui deflorata senza amore.

Non c'è solo il movimento italiano, dettato dalla povertà di risorse, verso realtà lontane. Anche stranieri infelici vengono da noi, nel tentativo di radicarsi, di trovare una realtà in cui sia possibile vivere umanamente. È il caso di Lise (Viaggio in Italia), che affronta da sola un interminabile percorso in treno, avvertendo «un nuovo ritmo nei suoni, ai passaggi delle stazioni», e leggendo nelle facce che vede «passioni antiche». Lise si sente «nucleo di un'altra razza», prende coscienza che la sua è «la storia del suo paese» e percepisce nei paesaggi «un senso sconfinato di solitudini». Allora si mette a piangere, apparentemente senza un motivo, che è invece nel suo sentirsi prigioniera di un'altra razza e di una condizione umana non modificabile, non redimibile. E stranieri sono anche i personaggi dell'ultima novella (Il canto più bello), la più mossa, la più parlata: un motivo di successo, ideato da un compositore di consumo popolare, si disperde nell'attesa di una trascrizione musicale, che lui non sa effettuare. Ed è ancora scacco, delusione, rimpianto, vita inconclusa: come in tutta la raccolta.