C’è un momento, nella vita pubblica e sociale, in cui la verità smette di interessare. Non perché non sia più importante, ma perché il clamore vale più della sostanza. È il tempo in cui l’indagine diventa spettacolo, l’avviso di garanzia si trasforma in un titolo sensazionalistico, il sospetto in una condanna anticipata. C’è chi informa — ed è un dovere — e c’è chi omette o sussurra: ed è forse più grave di chi sbrana e non cerca giustizia, ma un colpevole da esibire, spesso da massacrare, dandolo in pasto a social sempre più incattiviti.

La funzione pubblica — dalla politica all’amministrazione, dai leader ai semplici cittadini coinvolti — è per sua natura esposta. Chi lavora per il bene collettivo ha il dovere di essere trasparente e responsabile. Ma trasparenza non significa crocifissione preventiva, non significa perdere il diritto alla presunzione d’innocenza. Eppure, basta che un nome venga fatto in un’indagine ancora in fase embrionale perché scatti il tiro al bersaglio, spesso fatto di accuse pubbliche, insulti e diffamazioni. Non importa se quella persona sarà poi assolta, prosciolta o scagionata: il danno è ormai compiuto, la reputazione distrutta, la vita cambiata per sempre. È così che muore il garantismo, sotto i colpi di chi lo invoca solo quando conviene. C’è chi lo agita come una bandiera, ma solo se il bersaglio è un “nemico” politico, sociale o personale. L’informazione, per essere davvero tale, deve essere libera, completa e corretta. Deve raccontare i fatti e dare voce a tutte le parti senza anticipare sentenze, e ricordarsi che dietro ogni notizia ci sono persone reali, con famiglie, figli, emozioni. Solo così può contribuire a costruire una società informata, consapevole e rispettosa.

E questa responsabilità è ancor più importante quando si parla di diritti, valori e rispetto della persona. Prendiamo il femminismo, ad esempio. Una conquista enorme, una battaglia sacrosanta per l’uguaglianza e la dignità delle donne. Eppure, anche lì, troppo spesso, il rispetto sembra valere solo per alcune donne: quelle che si allineano con un certo pensiero, una certa corrente, un certo schieramento. Se una donna ha idee diverse, se esprime opinioni non conformi o milita in uno “schieramento sbagliato”, allora scattano insulti, sessismo, derisione. Anche da parte di chi si dichiara paladino dei diritti delle donne. Una contraddizione dolorosa e inaccettabile che ho conosciuto quando ho avuto l’onore di stare accanto a una donna calabrese, forte, libera, coraggiosa, che ha dedicato la vita alla sua terra e ai suoi ideali. Una donna che è stata attaccata con ferocia solo perché non apparteneva al “gruppo giusto”. Derisa pubblicamente, chiamata con soprannomi volgari, lasciata sola nel silenzio di chi avrebbe dovuto difenderla. Quella solitudine, più delle parole offensive, le ha ferito l’anima. Non ho letto un rigo a difesa della donna che il procuratore Nicola Gratteri definì: “persona onesta, 40 anni di alta politica, centinaia di intercettazioni e mai è uscito il suo nome”. La sua grandezza è tale che, senza fare il suo nome, la maggior parte di voi avrà già capito di chi sto parlando.

E allora, la domanda che dobbiamo porci, come cittadini e come società, è semplice ma fondamentale: vogliamo davvero vivere in un Paese dove i diritti e la dignità valgono solo per chi ci sta simpatico? Dove la verità si piega alle convenienze del momento? Il garantismo, il femminismo — quello vero — non possono e non devono valere solo quando ci fanno comodo. E il rispetto per le donne, per gli uomini, per ogni persona — qualunque sia il loro pensiero o la loro appartenenza — non può essere a giorni alterni. La dignità umana viene prima di tutto: prima delle simpatie, prima delle appartenenze, prima delle bandiere.

Serve memoria, serve coerenza, serve il coraggio di stare fermi, di non urlare quando tutti urlano, di aspettare quando tutti condannano, di difendere anche chi non ci piace. Perché se perdiamo la coerenza, perdiamo tutto. Abbiamo bisogno di rallentare. Di ricordarci che dietro ogni nome c’è una persona, con una storia e un diritto inviolabile alla dignità. Che il rispetto non è un’opzione o un favore, ma un dovere. E che la verità — anche se arriva tardi — merita sempre più spazio del clamore.