Nel panorama pubblicitario italiano, non è raro che un brand scelga la strada della provocazione per attirare l’attenzione. È una strategia rischiosa, che talvolta premia in termini di notorietà, ma altre volte si rivela un boomerang reputazionale. È il caso dello spot U-Power con Diletta Leotta, recentemente censurato dal Giurì dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria per violazione dell’art. 11 del Codice, che tutela i minori da rappresentazioni inadeguate e sessualizzanti.

Lo spot, andato in onda a partire da marzo 2025, mostra una cantante sensuale (interpretata da Leotta) che si esibisce su un palco mentre un bambino, presumibilmente di circa otto anni, la osserva con uno sguardo trasognato. La voce narrante recita: “La prima volta che sei rimasto senza parole”. Un gioco narrativo che richiama l’esperienza del "colpo di fulmine", della meraviglia, o — come molti hanno interpretato — di una precoce scoperta del desiderio.

A scatenare la polemica non è stato solo il contenuto, ma l’ambiguità del messaggio: quel bambino muto d’incanto davanti a una figura femminile ipersessualizzata solleva interrogativi profondi sul modo in cui la pubblicità costruisce l’immaginario del desiderio, persino nei più piccoli. La giornalista Selvaggia Lucarelli ha definito lo spot “inquietante”, accusando il brand di utilizzare la figura del minore per scioccare e polarizzare il pubblico, a scopi esclusivamente commerciali.

La difesa dell'azienda, per voce del fondatore Franco Uzzeni, è stata altrettanto decisa: “La malizia sta negli occhi di chi guarda”, ha dichiarato, minimizzando la questione e sottolineando il successo commerciale della campagna. Ma può davvero la crescita delle vendite giustificare una scelta comunicativa che rischia di normalizzare messaggi ambigui nei confronti dei minori?

C’è un filo sottilissimo che separa la censura dalla responsabilità sociale. E sì, è un confine difficile da gestire, soprattutto per chi si muove nel territorio della comunicazione visiva e cerca, legittimamente, di colpire, sorprendere, lasciare il segno. Ma attenzione: non si tratta di mettere il bavaglio ai creativi veri — e sono tanti — che ogni giorno dimostrano di saper provocare, emozionare e far riflettere senza cadere nel cliché volgare o nello stereotipo trito. La creatività ha senso quando si accompagna alla consapevolezza. E quando in uno spot si inserisce la figura di un bambino — per giunta in una fascia oraria pomeridiana, di forte esposizione anche infantile — il danno è bello che fatto. Il contesto non è mai neutro, e ogni dettaglio conta.

In un’epoca in cui la comunicazione pubblicitaria è sempre più sotto la lente dell’opinione pubblica, le aziende non possono più permettersi di ignorare le implicazioni etiche dei propri messaggi. La provocazione fine a sé stessa ha perso efficacia: non è più solo questione di “rompere il rumore” ma di sapersi assumere la responsabilità di ciò che si comunica.

Lo spot di U-Power ci ricorda che ogni scelta visiva, ogni parola narrata costruisce una rappresentazione della realtà. In questo caso, la realtà proposta è apparsa a molti fuori luogo, inopportuna. Secondo il giurì dell’Istituto di autodisciplina pubblicitaria, la pubblicità è in contrasto con l’articolo 11 del Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale che regola la protezione dei bambini e dei ragazzi. E il fatto che sia stato necessario l’intervento di un organo di vigilanza per fermarla, testimonia una volta di più la necessità di tornare a una pubblicità più consapevole, capace di emozionare senza scivolare su leggerezze che ignorano le varie sensibilità.

Questa vicenda rappresenta una case history interessante per chi si occupa di comunicazione: ci obbliga a riflettere non solo sull'efficacia dei messaggi, ma anche sul loro impatto sociale e culturale. Lo storytelling pubblicitario può (e deve) emozionare, ma deve farlo con senso di responsabilità. In un mercato in cui il valore di un brand si misura anche sul piano valoriale, ogni campagna è una dichiarazione d’identità. Lo spot U-Power, al netto delle vendite, rischia di essere ricordato come un’occasione persa per raccontare una storia diversa, meno strumentale, più rispettosa. E questo, oggi, fa la differenza. Non è la prima volta che il marchio U-Power si trova nell’occhio del ciclone. L'ultima volta risale e al caso della pubblicità occulta. Quella situazione aveva portato a una multa di 206mila euro comminata al servizio pubblico.

Personalmente, non è la prima volta che mi trovo a scrivere su questi temi. Già una decina di anni fa, in un’altra rivista specializzata in comunicazione, affrontai il concetto di “tatto creativo” come alternativa consapevole alla facile scorciatoia della sessualizzazione e del doppio senso volgare, soprattutto quando questi meccanismi coinvolgevano le donne. Scrissi — e continuo a credere — che non c’è nulla di geniale nel reiterare cliché sessisti o battute da spogliatoio sotto forma di pubblicità patinate. La creatività autentica è quella che riesce a stupire senza scadere nel banale o nel provocatorio a tutti i costi.

Quello di U-Power non è un caso isolato. Negli anni si sono susseguiti esempi analoghi di spot criticati (o ritirati) per eccessi comunicativi: Yamamay (2013) – Lo spot con Belen Rodriguez in lingerie, accusato di essere troppo esplicitamente sessuale e fuori luogo nei passaggi televisivi pomeridiani. Motorshow Bologna (2006) – La campagna “Vieni. L’auto ti aspetta” fu bocciata per l’allusione sessuale esplicita, mascherata da un doppio senso ritenuto di cattivo gusto. Dolce & Gabbana (2007) – Lo scatto pubblicitario con un uomo che blocca una donna a terra, circondato da altri uomini, venne accusato di evocare dinamiche di violenza e fu ritirato dopo proteste internazionali e tanti altri che è facile scovare in rete molto soprattutto in ambito provinciale.

Tutti questi casi dimostrano che i limiti della comunicazione non sono ostacoli creativi, ma spazi entro cui esercitare una visione più matura, capace, e — soprattutto — rispettosa. La vera innovazione, oggi, sta nel saper dire qualcosa di forte senza urlare, con tatto e metafore creative pensate senza cadere in facili scorciatoie che, più che attirare, allontanano e a volte danneggiano il brand.

Buona comunicazione a tutti.