«È come curare il raffreddore turandosi il naso, senza prendere medicine». Usa una metafora semplice ma efficace l’ex commissario della sanità calabrese, Massimo Scura, per esemplificare i prevedibili effetti dell’accordo che la Regione si appresta a sottoscrivere con l’Emilia Romagna per frenare la migrazione sanitaria. Un fenomeno che in Calabria ha assunto dimensioni macroscopiche: nei numeri, con 304 milioni di euro versati nelle casse delle altre regioni nel 2024, e per ricadute sociali.

L’intesa, prevista dall’ultima legge di Bilancio, non è ancora stata siglata ma ha già sollevato un nugolo di polemiche, soprattutto a seguito delle dichiarazioni rilasciate dai presidenti di regioni, più attrattive sul fronte sanitario. L’ingegnere continua a seguire a distanza le vicissitudini del settore di cui si è preso cura durante i suoi tre anni da commissario.

Dal suo punto di vista è uno strumento utile per incidere concretamente sul fronte economico e assicurare al contempo i servizi essenziali?

«È un atto amministrativo, non ci vedo niente di male. Ma trattandosi solo di un atto amministrativo è come se qualcuno volesse curarsi il raffreddore turandosi il naso, senza prendere le medicine. Si introducono tetti alle attività ospedaliere e ambulatoriali ma il problema di fondo non è mettere un tetto, e quindi un tampone al naso, ma realizzare servizi tali per cui i cittadini restino in Calabria. Inoltre, serve una operazione di marketing perché se tutti continuano a parlar male della sanità calabrese il cittadino andrà fuori regione anche per prestazioni evitabili e non per interventi ad alta complessità, che sarebbe anche accettabile. Ad esempio, andare in Toscana per operarsi di cataratta è veramente sciocco e assurdo. In Calabria ci sono tanti bravi oculisti in grado di operare ma il vero nodo da affrontare, di cui pure si tratta in questo accordo, è quello dell’appropriatezza. Affinché una operazione di cataratta sia ritenuta appropriata deve essere eseguita nel 90,95% dei casi in regime ambulatoriale, solo nella restante parte in day hospital e in casi eccezionali in ricovero. La differenza sta nei costi: in regime ambulatoriale viene remunerata circa 250, 300 euro, in day hospital 700 euro, in ricovero costa 1.500. C’è anche un problema di appropriatezza che riguarda la mobilità».

Si può spiegare meglio?

«Sì, quando ero direttore generale all’ospedale di Livorno, c’era l’azienda ospedaliera universitaria di Pisa che esercitava una forte attrazione sanitaria dalle altre province. In un caso mi sono accorto di un incremento di interventi in un determinato settore, e tutti con complicazioni. È questo un aspetto citato nell’accordo al punto 7. È possibile che tutti gli interventi fossero con complicazioni? mi sono chiesto. I miei colleghi di Pisa, sperando che noi a Livorno non ce ne accorgessimo, avevano applicato non solo la tariffa come da drg (ad esempio, 3mila euro) ma anche con complicazione (quindi, 4mila euro). Se non ci fosse stato nessuno in grado di reagire a questo atteggiamento, sarebbe stata applicata la tariffa più alta. Purtroppo, in Calabria non c’è quasi nessuno capace di perseguire queste azioni perché non adeguatamente formati. Io lamentavo proprio questo all’epoca ma non avevo però possibilità di intervento perché il dipartimento era stato sottratto al controllo della struttura commissariale. E lo è rimasto fino al 2019 quando è poi intervenuto il decreto Calabria ed è stato nominato un nuovo commissario ma che non aveva la più pallida idea di cosa fare in Calabria».

Lei sostiene che esistono delle forme di speculazione. Ci sono state anche in Calabria e continuano ad esserci? Questo accordo prova a risolverle?

«Certamente ci sono e ci saranno ancora, anche se l’accordo con Emilia Romagna prevede l’istituzione di una apposita commissione per il controllo dell’appropriatezza e verifica della reale mobilità. Il problema è che l’Emilia Romagna è dotata di professionalità formate a far valere le loro ragioni, la Calabria non ha mai formato nessuno. È la Calabria a dover maturare la capacità di rispondere gli addebiti di mobilità delle altre 19 regioni. È uno contro 19: se sei forte la vinci, se non sei forte la perdi. È capitato addirittura che in passato al tavolo di contestazione non ci andasse nessuno. Alla commissione prevista dall’accordo ci saranno tecnici dell’Emilia Romagna e tecnici della Calabria, la Calabria li ha formati questi tecnici? Nel 2018 ricordo che il dipartimento scoprì l’addebito di costi di mobilità passiva a calabresi che però non erano calabresi. Vi è poi un altro aspetto non secondario, tra il 5 e il 10% di mobilità è ascrivibile a calabresi che vivono stabilmente fuori Calabria ma mantengono lì la loro residenza. Ciò vuol dire che quando un calabrese che vive ormai in Emilia Romagna va a curarsi in Emilia Romagna viene conteggiato come un paziente proveniente dalla Calabria. Bisognerebbe far chiarezza anche su questo aspetto nell’accordo. Si parla del 5/10% su, ad esempio, 250 milioni di mobilità, il 10% equivale a 25 milioni, il 5% a 13 milioni. 20 milioni non sono affatto uno scherzo».

La bozza di accordo prevede anche un meccanismo di regressione tariffaria nel caso in cui vengano superati i tetti massimi previsti. Secondo lei è uno strumento utile?

«È uno strumento legato soprattutto all’appropriatezza. Esiste un numero determinato di drg ad alto rischio inappropriatezza, se si accede ad una di queste prestazioni in mobilità è prevista la possibilità di avere uno sconto. Restiamo all’esempio della cataratta, se in Emilia Romagna mi operano in day hospital, essendo a rischio di inappropriatezza, ho diritto ad applicare la tariffa ambulatoriale e lo stesso vale per i ricoveri. Ma ciò accade anche per i ricoveri, ad esempio in chirurgia anziché in medicina. Se un paziente subisce un ricovero in chirurgia, dove chiaramente i drg costano di più, si ha il diritto a farlo passare come day hospital o come ricovero medico anziché chirurgico. Se avessi avuto la possibilità di gestire il dipartimento, avrei reclutato un gruppo di espertissimi, avrei organizzato seminari per addestrare i medici. Ogni azienda dovrebbe averne almeno un gruppo in modo che, in caso di contenziosi, si sia capaci di reagire».

In queste ultime settimane si è assistito al rovesciamento di un paradigma consolidato. Non è più la Calabria, che ha pagato un prezzo altissimo, a lagnarsi ma sistemi sanitari che sulla migrazione hanno costruito le loro fortune, e che oggi pongono un limite alle cure a pazienti non residenti. Non crede si tratti di una forma di egoismo?

«Si tratta di sistemi in affanno. Pensiamo alla Lombardia che non ha più infermieri, questi preferiscono spostarsi a lavorare in Svizzera, dove guadagnano quasi quanto un medico in Italia. Quindi, mancano decine di migliaia di infermieri e non ce la fanno più. Vuol definirla una forma di egoismo? Io le dico che se avessero infermieri non direbbero non venite ma continuate a venire».

Questa decisione ha scatenato non poche polemiche poi anche in virtù del diritto di ciascuno di muoversi e viaggiare per ricevere le migliori cure. Cosa ne pensa?

«In linea teorica è esatto. È ciò che mi sentivo ripetere in Toscana quando cercavo di frenare l’emorragia di mobilità tra una provincia e l’altra. Mi dicevano: “Ognuno ha diritto di andarsi a curare dove gli pare”, bisogna però essere intelligenti e creare progetti win-win. È chiaro che io non voglio che i miei cittadini vadano in Lombardia o in Emilia Romagna ma devo fornire loro servizi adeguati. È comprensibile che lo si faccia per ricoveri di chirurgia oncologica o protesi all’anca dal momento che in Calabria non c’è una risposta adeguata. Ma il fatto che si vada fuori per la cataratta o per l’alluce valgo indica che si è persa totalmente la fiducia nel sistema. Bisogna intervenire per creare nuovi servizi e aumentare quelli che già esistenti, e poi tanto marketing. Se si parla male della sanità solo per colpire chi la governa, non si fa una cosa utile».