Coreografie di De Simone e Stabile, inserti elettronici di Palermo e un messaggio potente: uguaglianza, ritmo e libertà. L’opera di Ravel diventa rito e vertigine, simbolo della modernità che non si arresta
Tutti gli articoli di Spettacolo
PHOTO
In un tempo di antiche e nuove barbarie, di disarmonie che s’insinuano come fenditure nel tessuto dell’umano, andare a teatro è un atto di resistenza. «Questo deve essere il vostro Rendano, il nostro Rendano», ha esordito così, con voce ferma, e insieme commossa, la direttrice artistica Chiara Giordano, aprendo la nuova stagione teatrale del Teatro Rendano. Un’apertura insolita, audace: non un’opera lirica – come la consuetudine avrebbe voluto – ma un balletto, per altro non un balletto classico: il Bolero di Maurice Ravel.
Composta nel 1928, la partitura del Bolero è una delle più riconoscibili e ipnotiche dell’intero Novecento musicale. Ravel, figlio di madre basca e padre svizzero, ne concepì il ritmo come un incantamento, una spirale senza uscita. Egli stesso lo definì “una composizione priva di musica”, poiché il tema resta invariato, ossessivamente ripetuto, mentre cambia soltanto l’orchestrazione: un crescendo che non si risolve, un cerchio che si stringe, un fuoco che si alimenta di sé stesso. La prima esecuzione avvenne il 22 novembre 1928 all’Opéra di Parigi, con la coreografia di Bronislava Nijinska, danzatrice di origini russe. La prima interprete del Bolero fu l'attrice e danzatrice russa Ida Rubistein. Sul palco, Rubinstein incarnava una donna che danza su un tavolo di taverna spagnola, circondata da uomini che via via ne sono catturati, fino a sfiorare la follia collettiva: un rito pagano e sensuale, una messa profana in onore del ritmo, del corpo e del desiderio.
In questa nuova produzione, con le coreografie di Salvatore De Simone e Filippo Stabile, con i danzatori della Create Danza e la performance aerea curata dalla Compagnia Colonna, il Bolero di Ravel trova un equilibrio sapiente tra fedeltà e invenzione. Il primo tempo rimane ancorato alla struttura originaria del maestro francese, quella lenta, inesorabile progressione ritmica che pare riflettere l’ossessione meccanica e sensuale del moderno. Tuttavia, nonostante la bellezza delle coreografie, il primo tempo, in alcuni punti è apparso scandire in maniera troppo lenta. Mentre il secondo tempo si è aperto a un’inedita dimensione elettronica, firmata da Vincenzo Palermo. Una scelta ardita, ma coerente: se il Bolero è un cerchio che non si chiude, un moto perpetuo del desiderio e del suono, allora l’inserto elettronico non ne spezza l’incanto, ma lo rinnova, trasportandolo nella lingua del presente, come un’eco risonante tra passato e futuro.
Sulle tavole del Rendano, i corpi si sono mossi come strumenti, come nervature di un’unica creatura. Fortemente contemporaneo e drammatico, lo spettacolo ha saputo restituire la tensione che abita il Bolero: quella lotta incessante tra ordine e caos, tra eros e annientamento, tra carne e suono. La coreografia di De Simone e Stabile ha cercato il gesto puro, spogliato di narrazione, concentrandosi sul ritmo come principio generativo del movimento. I corpi si sono incontrati e scontrati, si sono attratti come poli magnetici, fino a costruire una sorta di climax visivo, un’esplosione finale che non è catarsi, ma disvelamento: l’uomo davanti alla propria vertigine.
Eppure, non tutti in sala hanno accolto con favore la rottura della tradizione. Qualcuno, fedele alla vocazione lirica del Rendano, ha guardato con perplessità all’assenza del grande repertorio operistico: Traviata, Cavalleria rusticana, Aida, titoli che da decenni segnano l’apertura della stagione e che appartengono al respiro più profondo della città. La scelta di inaugurare con un balletto, dunque, ha diviso. C’è chi ha visto in questo gesto una frattura con la memoria, un abbandono del “teatro di tradizione”; ma c’è anche chi ha colto in questa decisione un segnale di vitalità, un desiderio di riscatto e di rinnovamento, restituendo al Rendano la sua funzione più autentica: essere luogo di creazione, non di ripetizione.
È stata una scelta che ha diviso moltissimo. Audace, certamente. Coraggiosa.
Nessun dettaglio delle coreografie appare essere trascurabile. Ballerini e ballerine vestono allo stesso identico modo, senza alcuna differenza. Questo appare essere un messaggio importantissimo da lanciare e, solo in un ambiente come il teatro, si può e si deve fare.
Il Bolero è simbolo e presagio. È la rappresentazione del desiderio che cresce fino a travolgere se stesso, della passione che diventa sistema, del meccanismo che si fa destino. È la danza del mondo, il respiro di un’umanità sospesa tra il sublime e l’abisso. E nel suo ripetersi inesorabile, mentre l’orchestra (o l’elettronica) si dilata fino al parossismo, si riconosce la stessa pulsazione della nostra epoca: uniforme, martellante, quasi disumana.