Ripensare la solidarietà

«Per fare memoria non basta ricordare», la riflessione del vescovo Staglianò a un anno dalla strage di Cutro

Il presidente della Pontificia accademia di Teologia ricorda i giorni del naufragio e indica la strada per «rendere vivo il passato», immaginare vere politiche di accoglienza e soluzioni che combattano i trafficanti di esseri umani

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di Antonio Staglianò*
24 febbraio 2024
12:30

Ricordare non basta. Il ricordo sfuma, talvolta idealizza troppo. E ciò che resta del passato tragico è solo un pensiero. Molti ricordano esattamente quello che è accaduto a Cutro nella notte tra il 25 e il 26 febbraio 2023 a pochi metri dal litorale di Steccato, quando una barca turca si è arenata. Morirono quasi 130 persone tra cui 34 bambini. Chi può dimenticare? Non si dimentica l’evento, ma nemmeno le “parole di circostanza”, sicuramene sentite, accorate, cariche di pietà: “non dovrà più accadere!”. È una sconfitta dell’anima ricordare il vuoto retorico di chi “allora” non poteva non dire che appena questo! Il tempo è poi passato. Nel passare, il tempo ha destinato all’oblio i sentimenti, dentro un inesorabile fatalismo. Fummo tutti greci e l’idea del destino matura nelle piccole cose quotidiane: è destino, doveva accadere quello che è accaduto. Chi può assumersi la responsabilità dell’evento e soffrirne la colpa? Tutti siamo responsabili, cioè nessuno è responsabile e la vita va avanti.

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Nelle società dell’ipermercato si vive la gaiezza del consumare. “Consumo, dunque sono” sosteneva criticamente Z. Bauman. Il “bel” paese dei balocchi urge che ognuno pensi a sé stesso e al proprio divertimento, al diritto degli individui d’essere felici, di vincere lo stress: “cadono gocce di Chanel su corpi asettici, mettiti in salvo dall’odore dei tuoi simili”, canta F. Gabbani in Occidentali’s Karma. È il Karma dell’Occidente davanti a un fenomeno non controllabile: “mettersi in salvo”, cioè la sicurezza - tema con cui si possono vincere le elezioni nazionali ed europee -, “mettere a sicuro i propri confini”, piuttosto che soccorrere e salvare vite umane anche al costo della perdita della propria vita. La perdita in termini di umanità rasenta la follia. Aumentano le analisi tecniche e le strategie delle politiche, mentre ci si svuota di empatia, di immedesimazione.


Il senso umano degli individui si schianta contro la secca di un litorale e annega sotto la violenza delle onde dell’insensibilità, dell’egoismo che chiude ciascuno nel “me del proprio io”. Così di un tragico evento “resta solo il pensiero di un ricordo”, come quando muore una persona cara e gli amici per consolare dicono: “vedrai che col tempo passerà questo grande dolore della mancanza”. E puntualmente accade.

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La stoffa dell’essere umano però è di più: è partecipante sensibilità al dolore e alle sofferenze di altri. Esaltare la propria umanità significa non volere semplicemente “ricordare”, ma piuttosto “fare memoria”. La memoria ha sicuramente a che fare con il gioco straordinario dei “neuroni specchio” del cervello. Grazie ai “bottoni sinaptici” di queste miracolose reti neurali non manca il potere di ricordare. Tuttavia, nonostante il riduzionismo delle neuroscienze”, sappiamo che l’essere umano è coscienza incarnata in corpi, con i quali si fa esperienza del mondo, si vive amando, si è persone umane, dunque trama di relazioni amative (A. Rosmini), gustate nella solidarietà, nella compassione.

La memoria allora non fa “ricordare il passato come passato”, ma “rende vivo il passato come presente” e costringe a non abbandonare il dolore percepito un tempo, perché solo questo soffrire infinito per altri, muove a realizzare le condizioni storico- concrete, politico-sociali, educative-antropologiche perché “si resti umani” e si agisca umanamente.

La memoria attiva ben altre “reti neurali”, quelle del cuore. E sente la voce dell’altro (povero o migrante che sia) che grida nel profondo delle sue viscere: “non lasciarmi soffrire da solo” (I. Levinas), “impedisci che io muoia nel mare mediterraneo” e, ancora, “sii ospitale, ne va della tua umanità”, “resta umano, vivendo la pietas della cultura in cui sei nato”. E si potrebbe continuare.

Se si smette di ricordare e si comincia a fare memoria, allora tutto cambia.

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Il sentirsi umani e, dunque, consapevoli dell’appartenenza a un’unica comunità di destino - Fratelli tutti, direbbe Papa Francesco - allora s’accende l’immaginazione creativa e si comincia a “sognare ad occhi aperti” (E. Bloch) politiche sull’immigrazione che offrano un’accoglienza dignitosa e sicura, incluso l’accesso a servizi essenziali come cibo, alloggio, cure mediche e istruzione. Si favorisce l’integrazione dei migranti nelle comunità locali, promuovendo l’interazione tra migranti e residenti, creando opportunità di lavoro e la comprensione reciproca. Si collabora con altri paesi per affrontare le cause profonde dell’immigrazione, come la povertà, i conflitti e i cambiamenti climatici. Si lavora insieme per creare soluzioni sostenibili, combattendo le reti criminali che sfruttano i migranti con il traffico di esseri umani (questo richiede una cooperazione internazionale e leggi più severe contro i trafficanti).

In particolare, ci si impegna a sfatare stereotipi e miti sui migranti, con una educazione che punti a creare una società più accogliente e comprensiva, capace di empatia e di compassione verso chi cerca una vita migliore, ben sapendo che ogni migrante è un “corpo vissuto” dentro il quale splende una storia unica che mi appartiene, perché nel più profondo di me – in quanto essere umano – sento l’appartenenza dell’altro come mio fratello. Luigi Ciotti direbbe: “Io sono un NOI”.

Per tutto questo – e altro, ancor di più – “ricordare” non basta proprio. Sarà necessario “fare memoria” di ciò che un anno fa è accaduto sulle spiagge di Cutro.

*vescovo presidente della Pontificia accademia di Teologia

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