Uno degli autori del rapporto che analizza lo stato delle aree interne ne illustra le difficoltà senza dimenticarne i punti di forza: «In passato si è puntato troppo su infrastrutture turistiche e impianti di risalita, ma oggi non c’è la neve. Per vincere lo spopolamento puntiamo sull’accoglienza dei nuovi italiani»
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Il Rapporto Montagna 2025, un’iniziativa sviluppata dall’Uncem nell’ambito del Progetto Italie e in collaborazione con il Dipartimento per gli Affari regionali e le Autonomie della Presidenza del Consiglio, fotografa con dati, analisi e proposte lo stato attuale delle aree montane italiane. Il Rapporto che ritorna dopo l’ultima edizione risalente al 2017 è un’opera monumentale: oltre 800 pagine che raccontano dinamiche sociali, sfide economiche e traiettorie possibili per il futuro delle montagne italiane.
Al centro dello studio lo spopolamento e la marginalità economica di questi territori che, insieme alla all’impatto dei cambiamenti climatici, rappresentano le crisi vecchie e recenti che la montagna deve saper affrontare. Tra gli strumenti analizzati dal Rapporto ci sono la Strategia nazionale per le Aree Interne e la più recente Strategia delle Green Community, entrambi visti come strumenti per rilanciare la vitalità dei territori montani.
Ne parliamo con Antonio Nicoletti, responsabile nazionale aree protette di Legambiente, tra gli autori che hanno contribuito alla redazione del documento.
Perché le montagne sono considerate tra gli ecosistemi più fragili e più esposti al cambiamento climatico? Cosa sta già cambiando sotto i nostri occhi?
«Le nostre montagne, le Alpi e gli Appennini, sono fragili perché geologicamente giovani e storicamente interessate dal rischio sismico e da una forte pericolosità idrogeologica. Sono anche tra i territori più ricchi di biodiversità e per questo subiscono maggiormente l’impatto dei cambiamenti climatici che sono il principale fattore che genera perdita di biodiversità a livello globale. Su questo punto la scienza concorda nell’osservare che, crisi climatica e perdita di biodiversità sono interdipendenti e l’aggravarsi delle condizioni di una peggiora l’altra. Per questi motivi bisogna ridurre le emissioni di CO2 in atmosfera e frenare la febbre del Pianeta, eliminare i combustibili fossili e puntare decisamente sulle energie rinnovabili e, al contempo, rendere gli ecosistemi naturali più resilienti ai cambiamenti climatici. Se non agiamo velocemente aumentano i rischi per l’intero Pianeta e gli effetti diretti sui territori montani a partire dall’aumento del rischio degli incendi, la riduzione del permafrost e l’arretramento dei ghiacciai».
In che modo il riscaldamento globale minaccia non solo l’ambiente montano, ma anche chi vive e lavora in queste aree?
«Le nostre montagne interessano il 57,6% del territorio nazionale e coinvolgono 3.471 comuni il 45% del totale dove risiedono 8,5 milioni di abitanti. Questi numeri raccontano che il 15% della popolazione vive a stretto contatto con le principali risorse naturali di cui disponiamo (acqua, legno, natura, paesaggio) e da cui dipendono per la loro sussistenza. Perciò proteggiamo gli ecosistemi che generano questa ricchezza rendendoli più resilienti ai cambiamenti climatici, e continuiamo a lavorare sulle cause “storiche” che hanno generato abbandono e marginalità economica evitando che la crisi climatica alimenti la spirale negativa. La buona salute degli ecosistemi montani ha impatti diretti sulla vita delle persone, perché le risorse naturali sono il più potente strumento di immagazzinamento della CO2 disponibile,per questo motivo la montagna che è ricca di risorse naturali è anche strategica per vincere la sfida climatica».
Cosa si intende per “servizi ecosistemici” che la montagna fornisce anche a chi vive in città? Può farci qualche esempio concreto?
«Le risorse naturali quando sono ben gestite generano dei servizi ecosistemici (ossigeno, acqua, energia, legno, cibo, ecc..) di cui beneficiano per prime le comunità che vivono in montagna. L’interesse delle comunità locali è di mantenere gli ecosistemi in buono stato e utilizzarne le risorse per le loro esigenze e offrirne l’utilizzo anche ad altri: ai turisti che fruiscono della natura per le vacanze, gli agricoltori che usano l’acqua per irrigare, le imprese che utilizzano il legno per le produzioni forestali ai gestori del servizio idrico che utilizzano l’acqua delle montagne per irrigare e bere. In questo schema, chi detiene le risorse e chi le utilizza hanno un interesse convergente a gestire bene le risorse per continuarne l’utilizzo, e per questo bisogna far comprendere che chi vive in montagna garantisce servizi fondamentali anche per gli altri. Perché se l’acqua utilizzata per irrigare le campagne e dissetare le città proviene da montagne ben gestite e da sorgenti pure rappresenta una garanzia per tutti».
Si parla di un “patto di mutua assistenza” tra città e montagne: come potrebbe funzionare questo scambio virtuoso?
«L’esempio della gestione della risorsa idrica aiuta a comprendere la necessità di un nuovo patto di mutualità tra le città e le comunità di montagna, anche per sfatare la teoria di considerano gli aiuti per questi territori una assistenza a perdere. Se garantiamo un’acqua di qualità perché il territorio montano è ben gestito, non bisogna affrontare costi per trattare la risorsa per renderla utilizzabile per scopi civili. Ma questo eco-servizio deve essere“remunerato” a chi garantisce la buona gestione del territorio montano, soprattutto in una fase dove i cambiamenti climatici riducono la disponibilità di queste risorse idriche. In questo modo affrontiamo le difficoltà con la consapevolezza che bisogna lavorare insieme, perché è evidente che la crisi climatica si affronta con politiche condivise e con nuove relazioni per avvicinare le esigenze delle metropoli alle necessità delle aree rurali. Nessuno si salva da solo e il contrasto ai cambiamenti climatici necessità di un approccio One Health: salviamo il Pianeta se miglioriamo le condizioni di tutti i suoi abitanti».
Spesso si è investito molto negli impianti sciistici, ma oggi quel modello è in crisi. Quali alternative realistiche ci sono per il futuro del turismo in montagna?
«La montagna è stata troppe volte mal assistita e spesso le risorse non sono state utilizzate per invertire la curva dello spopolamento e dell’abbandono, ma hanno generato l’illusione che per creare sviluppo bastavano le infrastrutture turistiche e gli impianti di risalita, mentre oggi queste scelte devono fare i conti con l’impatto dei cambiamenti climatici. Il climate change potrebbe essere la scusa per incoraggiare l’avvio di nuove politiche che tengano conto della scarsità delle risorse: la neve naturale che manca per sciare o la mancanza di acqua per irrigare i campi per colture ancora troppo idroesigenti. Le risposte le troviamo in una diversa gestione del territorio e con investimenti coerenti per contrastare la crisi climatica, anche se si continua a sovvenzionare ancora il turismo degli impianti di risalita o l’agricoltura che consuma troppe risorse e si ignorano le potenzialità dell’agroecologia e il turismo attivo e sostenibile».
Lo spopolamento è una delle grandi emergenze dei territori montani. Cosa serve davvero per invertire questa tendenza?
«Chi vive nei territori montani affronta già la crisi demografica e la marginalità economica, e si trova a dover affrontare anche la crisi climatica che incide sulle condizioni già critiche di questi territori sempre più marginali. In questi contesti è cresciuta la paura dei singoli alimentata anche dall’incertezza sulle prospettive delle comunità di riuscire a risolvere tutti i problemi. Queste aree rappresentano quasi il 60% del territorio nazionale e nessun Paese risolve i suoi problemi se non “cura” il territorio e le comunità che lo abitano. Il contrasto all’abbandono delle montagne deve diventare una priorità politica e un progetto condiviso. Chi ancora abita questi territori ascolta le proposte che arrivano con le promesse di investimenti pubblici, ma continua a reclamare la mancanza di servizi sociali e comunitari di base (sanità, scuola, trasporti, connessioni digitali) che servono a garantire la loro sicurezza. Nonostante gli investimenti ingenti degli ultimi 15 anni, a partire da quelli messi in campo con la Strategia per le aree interne, i bisogni di queste comunità e la richiesta di sicurezza continua a crescere anche perché la popolazione residente invecchia e mancano i giovani e chi si cura di loro. In molti casi, prima ancora dell’abbandono, bisogna sconfiggere anche la percezione dell’abbandono che alimenta paure e il rifiuto del cambiamento che in molti casi è necessario».
Alcuni parlano di “ritorno alla terra”, altri di “neo-popolamento”. Chi sono oggi le persone che scelgono di tornare o trasferirsi in montagna?
«Nelle aree dell’appennino settentrionale e di alcune parti dell’arco alpino, il Rapporto di Uncem segnala nel periodo 2019-2023 un aumento della popolazione pari a 100mila abitanti. Un risultato in controtendenza se si considera che due terzi di questi neo-popolanti sono italiani che si sono trasferiti in queste aree e solo un terzo si tratta di nuovi italiani che si insediano in questi territorio. Tra le ragioni di questa crescita ci sono motivazioni di voler vivere in luoghi più salubri o dedicarsi ad attività più vicine al rapporto con la natura e le produzioni naturali. Basti pensare al successo che riscuotono le scuole di pastorizia diffuse in tante aree dell’appennino, o la scelta di ritornare all’agricoltura di tanti giovani o, molto diffusa, la crescita del turismo che ha avvicinato tanti giovani all’accompagnamento in natura. Si tratta di una tendenza ancora fragile, e non diffusa in maniera omogenea, ma che occorre assecondare rafforzando anche le occasioni di sviluppo di settori diversi da quelli tradizionali dell’agricoltura e del turismo. Anche per questa ragione sarebbe opportuno investire bene le risorse a partire da quelle del Fondo nazionale per la montagna – FOSMIT- per favorire politiche territoriali integrate come quella per le green community».
Quali tipi di aiuti o investimenti pubblici servono alle imprese e alle comunità delle terre alte per resistere e rinascere?
«Le politiche pubbliche sono fondamentali per accompagnare la montagna nella transizione ecologica e per invertire le debolezze indotte dalle diverse crisi, ed il Rapporto fornisce alcuni dati su cui riflettere. Il sistema imprenditoriale montano è rarefatto con 9,2 imprese ogni 100 abitanti e una percentuale dell’1,4% di imprese cooperative in tendenza con il dato nazionale. Mentre le imprese “straniere” gestite da immigrati sono il 7,5% del totale e molto inferiore al dato nazionale, com’è bassa la percentuale delle imprese innovative che sono solo lo 0,6% rispetto al 6,5% del dato nazionale. In montagna le filiere principali sono quelle legate all’agricoltura e al turismo. Il PIL delle zone montane è più basso del 30%, mentre il reddito e più basso del 17% rispetto alla media nazionale. Bisogna agire su queste differenze e accorciare il divario tra le aree del Paese, e alle imprese servono risorse dirette e su misura per chi opera in territori spesso gravati da vincoli e regole complesse. In questi territori, aziende e operatori devono ricevere finanziamenti appropriati e, in cambio delle sovvenzioni ricevute, garantire produzioni sostenibili che riducano le emissioni e garantiscano la neutralità climatica dei territori».
Quanto è importante che le comunità locali partecipino direttamente alle scelte sul loro futuro? E cosa serve per renderlo possibile davvero?
«Occorre il totale coinvolgimento dei territori, ma ancora prima serve ricostruire la fiducia con le comunità che si sentono abbandonate perché la montagna ha bisogno delle giuste attenzioni. Aiutiamo i territori a individuare i bisogni veri per valorizzare i talenti e le vocazioni locali, selezionando gli obiettivi sulla reale capacità di realizzazione attraverso un processo partecipato che elabori una visione di comunità che si deve trasformare in progetto di sviluppo locale. Aiuti e investimenti per il mantenimento del paesaggio e degli alpeggi tradizionali, il ripristino dei pascoli abbandonati e dei prati stabili per favorire l’allevamento brado e la transumanza, per favorire la gestione forestale sostenibile delle risorse e delle filiere boschive. Poche azioni ma a misura di territorio, sul modello delle green communities, ma condivise per consolidare le competenze in loco altrimenti i progetti non avranno gambe solide per camminare e trasformare il desiderio in cambiamento. Bisogna ascoltare di più e aiutare le comunità a credere nel Green deal Europeo e nella possibilità di attuare la transizione ecologica a loro vantaggio».
Se dovesse immaginare la montagna tra vent’anni, quale scenario spera di vedere realizzato? E quale invece teme di più?
«Nelle terre alte bisogna favorire il neo popolamento di chi cerca luoghi salubri e vivibili, ma soprattutto dei nuovi italiani che credono nella possibilità di poter essere accolti nelle piccole comunità locali. In queste aree, dove c’è bisogno di forze attive per produrre o assistere le persone, dove mancano bambini per rianimare luoghi troppo silenziosi, bisogna puntare sull’accoglienza e l’integrazione. La montagna ha bisogno di rafforzare la produzione di beni e prodotti di qualità, investimenti sul lavoro e l’innovazione delle imprese e delle filiere ma, innanzitutto, bisogna garantire servizi alle persone e alle comunità. Servizi che, oltre a frenare l’abbandono, possono fungere da “attrattori” per chi decide di insediare l’impresa o vivere in questi territori. Presidi socio sanitari territoriali, scuole e asili nido, trasporti collettivi e servizi di mobilità su misura, sportelli bancari, connessioni digitali e superamento del digital divide in queste aree devono avere priorità prima che nel resto del Paese. Se chiude uno sportello postale in città rimane il successivo magari in un altro quartiere, in un paese di montagna la chiusura di un ufficio da avvio alla desertificazione dei servizi che genera la valanga dell’abbandono. Le ricette ed i buoni propositi non mancano, ma è forte la preoccupazione che anziché percorsi condivisi si scelgano ricette omologate e le persone anziché desidera il cambiamento lo rifiutino per paura o pigrizia».