La legge di Bilancio prevede milioni di euro in meno per beni librari e biblioteche. A deciderlo gli stessi governi che non esitano a spendere miliardi per armamenti, riforme inutili o mance elettorali
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Vergogna. Non c’è altra parola. Un Paese che taglia sui libri, sugli archivi, sulla tutela del proprio patrimonio culturale non è un Paese povero di risorse: è un Paese povero di ambizione, di visione, di rispetto per sé stesso. È un Paese che ha deciso di amputarsi la memoria per vivere nell’eterno presente, dove ogni notizia dura al massimo ventiquattr’ore e ogni indignazione evapora al tramonto.
La legge di bilancio 2025, spulciata dalla newsletter Pubblico della Fondazione Feltrinelli, parla chiaro: 10 milioni di euro in meno per beni librari e Fondazione del Libro, -9,4 milioni per i beni archivistici, -424,9 milioni per il patrimonio culturale, -485,8 milioni per la tutela dei beni e delle attività culturali e paesaggistiche. Tradotto: meno biblioteche, meno archivi, meno restauri, meno cultura accessibile.
Chi pensa che siano “spese superflue” dovrebbe avere il coraggio di guardare negli occhi un bibliotecario di provincia che cerca di tenere aperta una sala lettura con scaffali fermi agli anni ’90. O un restauratore che combatte contro l’umidità che mangia un affresco del ‘400. O un archivista che lavora tra faldoni ammuffiti perché il climatizzatore è rotto e nessuno lo ripara.
Cultura significa case editrici indipendenti che pubblicano autori esordienti. Significa festival che portano scrittori nei piccoli centri. Significa bambini che toccano un libro per la prima volta. Significa un ragazzo che, in una biblioteca comunale, trova il romanzo che cambierà il corso della sua vita.
Tagliare qui non è un’operazione contabile: è una dichiarazione politica. È dire, nero su bianco, che la conoscenza non è prioritaria. Che la memoria può attendere. Eppure lo sappiamo: ogni dittatura inizia bruciando o censurando libri. Ogni società in declino inizia smettendo di trasmettere ai giovani ciò che ha imparato, preferendo il rumore alla riflessione.
Se ne accorse Antonio Gramsci, scrivendo dal carcere che “istruire è difficile, ma governare un popolo ignorante è più facile”. Se ne accorgeva Pasolini quando vedeva nei nuovi palazzi e nelle nuove periferie un linguaggio senza storia, senza radici. Il paradosso è che viviamo in un Paese con il più grande patrimonio artistico e culturale del mondo. Abbiamo città che sono musei a cielo aperto, biblioteche con incunaboli unici, archivi che raccontano mille anni di storia. Eppure, invece di custodirli, li lasciamo cadere a pezzi.
Non è miseria economica: è miseria morale. Perché gli stessi governi che tagliano alla cultura non esitano a spendere miliardi per armamenti, riforme inutili o mance elettorali. Mi chiedo — e chiedo a chi ci governa — se abbiano mai provato la sensazione di aprire un libro raro, di sentire l’odore della carta che ha attraversato secoli. Se abbiano mai provato il silenzio vibrante di un archivio storico. Se abbiano mai capito che un affresco restaurato non è solo pittura, ma un pezzo di identità collettiva.
La cultura non è un lusso da salotto. È infrastruttura civile. È ciò che impedisce a una comunità di diventare massa informe. È ciò che dà senso al concetto stesso di Paese. Senza cultura, restiamo solo un mercato di consumatori, pronti a essere intrattenuti ma incapaci di essere cittadini. Oggi tolgono dieci milioni alle biblioteche. Domani potremmo non accorgerci che ci hanno tolto le parole per raccontare chi siamo stati.
E allora resteremo qui, in piazze silenziose, sotto statue che guardano lontano ma che nessuno sa più nominare. Le librerie chiuse avranno le vetrine impolverate, come occhi spenti; gli archivi saranno stanze vuote dove l’eco dei passi suonerà più forte delle storie perdute. E, in quel silenzio, scopriremo che a mancare non saranno solo i libri, ma noi stessi.