C’è un luogo in Calabria dove il tempo non scorre: non è un borgo abbandonato né un paese spopolato. È il palazzo della politica. Lì, in questi giorni, si discute con intensità febbrile di assessorati, deleghe, equilibri, pesi interni, rappresentanze territoriali.

Si parla di “nuovo corso”, di “rinnovamento”, di “squadra di governo”. Ma fuori da quelle stanze, in quella che dovrebbe essere la regione da governare, nessuno ne parla. Nessuno aspetta la Giunta. Nessuno sente che da quelle porte possa entrare un cambiamento reale.

La Calabria è oggi la regione più commissariata d’Italia: sanità sotto controllo dello Stato dal 2010; rifiuti sotto osservazione speciale; bilanci monitorati dal MEF; fondi europei vincolati; PNRR rallentato. Secondo i dati ufficiali (OpenPNRR, aggiornamento aprile 2024), solo il 36% dei progetti finanziati ha raggiunto uno stato di avanzamento concreto. Nella sanità territoriale, il 70% delle Case di Comunità previste non è stato ancora realizzato, e in alcune province non è stato aperto nemmeno un cantiere. I tempi di attesa per una visita cardiologica superano i 180 giorni (dati Agenas), in barba al diritto alla cura. Nel frattempo, nei corridoi del Consiglio regionale si contratta non come curare i cittadini, ma chi avrà il diritto di gestire il budget della cura.

La politica sembra vivere in un altrove dove le parole valgono più dei fatti. Ogni ciclo amministrativo comincia con le stesse promesse: sviluppo, lavoro, infrastrutture. Ma la realtà racconta altro. Secondo Svimez 2024, la Calabria è la regione con il più alto tasso di emigrazione giovanile: negli ultimi tre anni hanno lasciato la regione oltre 50.000 ragazzi tra i 18 e i 35 anni, molti con laurea o titoli di alta formazione. Ogni giorno, 140 persone prendono un treno, un aereo, o un autobus e non tornano. L’Eurostat registra che il tasso di occupazione tra i 20 e i 34 anni è inferiore al 30%, contro il 61% della media europea. La natalità è crollata del 40% in dieci anni (ISTAT): nessuna regione d’Europa perde popolazione come la Calabria. La sanità non funziona, la scuola resiste ma con organici insufficienti, le infrastrutture sono ferme agli anni ’80. Eppure, nei palazzi, il tema del giorno è la geometria del potere, non la carne viva della realtà.

Non è un vizio di questa Giunta o della precedente: è un sistema che ha sostituito il governo con l’amministrazione del consenso. La Calabria non è più governata: è gestita. Non si discute di come creare lavoro, ma di quante assunzioni pubbliche inserire nei prossimi concorsi. Non si ragiona su una politica industriale, ma su quale assessore potrà presenziare ai tavoli con i consorzi. La Regione, da organo di programmazione del futuro, è diventata un condominio dove si litiga su chi ha diritto a usare l’ascensore.

E tuttavia, accade qualcosa. Mentre la politica si auto-rappresenta, fuori dai palazzi la Calabria si muove. Nei borghi spopolati del Pollino, giovani rientrati dall’estero stanno aprendo aziende agricole ad alta innovazione. A Gerace, a Mormanno, a Belmonte, nascono cooperative culturali che trasformano l’abbandono in accoglienza. La Banca d’Italia certifica che il tasso di crescita delle imprese giovanili in alcuni settori (accoglienza sostenibile, digitale, agritech) è superiore alla media nazionale. È un fenomeno silenzioso ma implacabile: una parte della società calabrese sta smettendo di aspettare la politica. Sta costruendo da sé ciò che la politica ha rinunciato a immaginare.

Il paradosso è qui: la distanza tra palazzo e popolo non è mai stata così grande, ma proprio da questo divario potrebbe nascere la risposta. Oggi i cittadini non chiedono più elemosine istituzionali: chiedono rispetto. Non cercano un posto nel sistema: cercano di cambiare il sistema. I sindaci dei piccoli comuni lanciano appelli sulla denatalità e sulla chiusura delle scuole, mentre la Regione discute di vicepresidenze. Le associazioni per la difesa della sanità pubblica presentano dati e ricorsi, mentre nei palazzi si discute chi guiderà l’Azienda sanitaria provinciale.

Viviamo nel tempo dell’attesa sospesa: la Giunta che deve nascere, il potere che deve assestarsi, le correnti che devono spartirsi la mappa. Ma intanto la Calabria reale non può più aspettare. Non può aspettare chi deve partorire un equilibrio politico. Non può aspettare che si decida a chi spetta il trasporto pubblico regionale mentre ogni giorno un pendolare rimane fermo in una stazione senza treni. Non può aspettare quali territori saranno “rappresentati” in Giunta mentre intere aree interne stanno scomparendo dalle mappe demografiche.

Questa regione è arrivata al bivio finale: o continuerà a essere amministrata da un sistema politico che vive nel teatro delle deleghe, oppure sarà rifondata da chi non accetta più che la Calabria esista solo nei discorsi e non nella realtà. La vera Calabria oggi non è nei palazzi del potere: è nelle mani di chi resta, di chi torna, di chi pretende che una terra sia una comunità e non una prigione geografica da cui fuggire.

Il potere può continuare a discutere di sé stesso, ma la storia ha iniziato a camminare altrove. La domanda finale non è cosa farà la prossima Giunta, ma se la Calabria avrà ancora tempo per aspettare. Perché una regione può sopravvivere senza un governo efficace per qualche anno. Ma non può sopravvivere senza un popolo che crede nel proprio futuro. E quel popolo, oggi, ha smesso di aspettare permessi.

La politica continua a parlare di equilibrio. La Calabria reale parla di sopravvivenza. E tra chi governa il nulla e chi costruisce dal basso, sta nascendo la vera linea del conflitto che deciderà il futuro: non tra destra e sinistra, ma tra chi vive dentro la realtà e chi l’ha abbandonata. La Calabria, ormai, non chiede un governo: chiede una liberazione.