VIDEO | Il regista canadese di capolavori come Crash, Videodrome e La Mosca è stato l’ospite di punta della prima giornata del Festival internazionale delle Arti organizzato nel centro presilano
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Lo sguardo di vetro che si accende quando parla della sua materia prima, il cinema, cibo privilegiato che serve ai suoi spettatori al sangue, rigorosamente. In Calabria per la sua seconda volta, David Cronenberg è arrivato direttamente da Toronto insieme a due amici di vecchia data, canadesi di adozione e direttori artistici del festival Internazionale delle Arti di Celico: lo scrittore Antonio Nicaso e Donato Santeramo docente universitario e già direttore del Matera Film festival.
«Non ho mai ricevuto un benvenuto così caloroso» dice salutando il sindaco di Celico Matteo Lettieri, fautore di un successo insolito a queste latitudini.
Lettieri è infatti riuscito a mettere su un festival pregiato, finito su tutti i giornali nazionali e specializzati per cinéphiles, perché portare un maestro del cinema, l’ultimo dei grandi visionari – non profeti, ma artisti dell’immagine – nel piccolo centro abbracciato dalle montagne della Sila, è un’impresa per pionieri che hanno lo sguardo lungo e la voglia di scrollare dalle spalle istituzionali la polvere della vecchia politica.
Cronenberg il 3 aprile scorso ha presentato nelle sale italiane il suo ultimo film “The Shrouds” che si allaccia alla sua vita privata in modo evidente. Opera personale e intima, ma nel senso cronenberghiano del termine, ha un protagonista (Vincent Cassel) che somiglia anche nell’aspetto all’autore canadese, colpito nel 2017 dalla perdita della moglie.
Nel film il protagonista è un uomo che cerca di affrontare il lutto per la perdita della sua compagna di vita creando un cimitero hi-tech in cui i corpi dei morti sono avvolti da speciali sudari che permettono di osservare in diretta sullo smartphone, il disfacimento materiale dei cadaveri.
Un voyeurismo macabro, che il regista più provocatorio dell’ultimo mezzo secolo, trasforma in consolazione biotecnologica che bacia in bocca il Grand Guignol. Il corpo – nella sua filosofia – è l’unica cosa che conta perché rappresenta la realtà, la vita, oltre la quale non vuole guardare, e quindi nulla che lo riguarda può essere sbagliato o disgustoso.
«Non si può che essere felici qui a Celico – ha detto guardandosi intorno – più che girarci un film, vorrei trasferirmi», elogiando poi il carattere rivoluzionario di Gioacchino da Fiore, il frate più mainstream della Calabria, che venne citato anche da Obama nel suo discorso di insediamento.
Cronenberg a 82 anni, conserva l’aria anarchica e sardonica d’un tempo, e non si meraviglia se la realtà a volte somiglia a quello che aveva rappresentato in Videodrome, uno dei suoi film manifesto, in cui un segnale pirata trasmetteva immagini di violenza reale cambiando la mente – e il corpo, ça va sans dire – di chi guardava, creando nuova materia organica negli osservatori destinati ad esserne consumati.
«Non so se la realtà ha superato o no la mia visione. Quando creo, non penso all’arte come a una profezia, è solo che, da artista, hai queste antenne speciali che captano le vibrazioni di ciò che sta accadendo. E quelle antenne c’erano già quando, negli anni ’70 e nei primi ’80, ho realizzato Videodrome. Quindi credo sia semplicemente inevitabile che, se sei un artista, finirai per anticipare alcune cose che poi si sviluppano. Ma per me non è sconvolgente, voglio dire, penso che tutti potessero vedere che sarebbe successo, prima o poi».
Con l’Ai oggi possiamo creare qualsiasi immagine o video in pochi secondi. In passato il cinema ha cambiato la letteratura così come la fotografia aveva cambiato la pittura, come l’intelligenza artificiale cambierà il cinema secondo lei?
«In realtà abbiamo già modi di creare film senza il coinvolgimento in video delle persone, penso ai cartoni animati, ai videogiochi e così via. In realtà, nel cinema usiamo l’intelligenza artificiale da anni. Quindi, da questo punto di vista, per i registi non è poi così sconvolgente. Ma è un nuovo modo, questo sì, un nuovo modo di fare cinema. È strano, perché la prima volta che ho provato l’IA, ho scritto: “Vorrei vedere una donna che cammina per strada con un impermeabile e un ombrello, sotto la pioggia”. E poi quella scena è apparsa. Ma è un po’ come quando sei uno sceneggiatore e scrivi. Quindi è più che altro che quel tipo di cinema sarà come scrivere. È piuttosto strano, sai. Scrivi la tua sceneggiatura… e poi il film prende forma. È una specie di versione capovolta del processo di realizzazione tradizionale».
La musica nei suoi film è un elemento importante, si insinua nella storia, la contamina. Come costruisce con i suoi compositori la colonna sonora nei suoi film – penso al suo storico collaboratore Howard Shore, ad esempio – per renderla così disturbante?
«Io e Howard, molto tempo fa — abbiamo fatto diciassette film insieme, che sono tanti — abbiamo deciso che la musica, per come viene normalmente usata nel cinema, serve solo ad accentuare ciò che è già presente. Se c’è una scena spaventosa, ci metti musica spaventosa. Se c’è una scena romantica, ci metti musica romantica. E abbiamo pensato che fosse un’occasione sprecata, perché la musica può dire qualcosa che non c’è, può aggiungere un elemento in più. Ad esempio, in The Shrouds, c’è un uomo che ha perso la moglie. È in lutto, ma appare molto calmo, molto freddo. Molto controllato. Ma la musica no. La musica esprime il dolore interiore, la tristezza, la devastazione. Ed è davvero questa la base del nostro lavoro. La nostra strategia».