Il docente dell’Unical analizza le debolezze dell’economia regionale: produttività stagnante, fuga dei giovani e un modello sbilanciato verso settori a bassa produttività che, da soli, non possono garantire sviluppo duraturo e occupazione stabile
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Prosegue il viaggio di LaC News24 nell’economia calabrese attraverso il contributo di esperti del settore. Tra report ufficiali che restituiscono l’immagine di una regione che cresce debolmente, segnali congiunturali favorevoli in ambito turistico e problematiche strutturali come lo spopolamento e l’altissima percentuale di neet (giovani che non studiano e non lavorano) la Calabria continua ad essere il fanalino di coda d’Italia. Abbiamo chiesto al professore Francesco Aiello, ordinario di Politica economica all’Università della Calabria e presidente di OpenCalabria, di accompagnarci nella lettura dei dati per comprendere meglio qual è lo stato di salute del sistema economico calabrese. Aiello, a partire da novembre 2025, assumerà la carica di direttore del Dipartimento Economia, Statistica e Finanza dell’Unical.
Nel 2024 l’economia calabrese è cresciuta debolmente, rallentando rispetto all’anno precedente. Un andamento che continua a risentire del pesante calo demografico e delle criticità del contesto istituzionale, con un tasso di innovazione del tessuto produttivo ancora contenuto. Che ne pensa?
«I segnali più recenti confermano tendenze strutturali di lungo periodo. La crescita modesta del 2024 non è sorprendente, ma l’ennesima prova di una fragilità che si trascina da decenni. In Calabria la base produttiva è ristretta e poco dinamica, la popolazione in età lavorativa è in calo (-12% dal 1995 al 2023) e gli investimenti in innovazione restano limitati. A questo si aggiungono debolezze amministrative che rallentano l’attuazione delle politiche pubbliche e rendono difficile cogliere le opportunità offerte dalla transizione digitale ed ecologica. Non basta un rimbalzo congiunturale: senza un rafforzamento strutturale, la crescita rimane episodica e risibile in dimensione».
Nella sua recente analisi che prende in esame gli ultimi trent'anni di economia calabrese lei evidenzia che il Pil pro capite a prezzi costanti è cresciuto a tassi irrisori mentre sulla produttività del lavoro il divario con il Centro-Nord è ancora del 26%. Quali sono le cause e in quale direzione si dovrebbe intervenire per invertire la tendenza?
«Il ritardo della Calabria è spiegato da un modello economico sbilanciato verso settori a bassa produttività - come l’agricoltura tradizionale, il turismo, i servizi tradizionali, la pubblica amministrazione – mentre quelli ad alta produttività connessi ai mercati globali, quali il manifatturiero ad elevata intensità tecnologica e il terziario avanzato, sono marginali. Questo comporta che, anche nelle fasi espansive dell’economia, la crescita del PIL regionale sia rallentata, manifestando un’incapacità di ridurre i divari con il resto del paese. Per invertire la rotta occorre puntare su filiere produttive ad alto contenuto di conoscenza, sull’attrazione di investimenti extra-regionali e sul rafforzamento a fini produttivi delle competenze, creando un contesto più favorevole all’iniziativa privata e all’innovazione».
Gli stessi dati, tuttavia, vanno considerati al netto della produttività per "difetto" e non "merito". Ci spiega di cosa si tratta?
«La “produttività per difetto” aiuta a interpretare meglio l’apparente miglioramento di alcuni indicatori. In Calabria, tra il 1995 e il 2023, il valore aggiunto aggregato a prezzi costanti è cresciuto poco, e il numero di occupati è addirittura diminuito. In questo contesto, la produttività del lavoro, ossia il rapporto tra il valore aggiunto e gli occupati, se cresce non è perché migliorano l’efficienza, l’innovazione o l’organizzazione del sistema economico, ma perché si restringe la base occupazionale. È dunque una produttività che cresce per effetto della selezione negativa del sistema, non per merito del sistema stesso. Al contrario, una vera crescita della produttività – quella “per merito” – si ha quando aumentano anche occupazione, investimenti, qualità del lavoro e produzione aggregata».
La Calabria rimane in vetta alla classifica nazionale per presenza di Neet, giovani che non studiano, non lavorano e non seguono corsi di formazione. E le imprese lamentano difficoltà nel mismatch tra domanda e offerta. Come se ne esce?
«Uscirne richiede un doppio sforzo. Da un lato, occorre rafforzare, nei fatti e non a parole, le politiche attive del lavoro e i percorsi formativi, rendendoli coerenti con i fabbisogni reali delle imprese. Dall’altro, serve rilanciare la domanda di lavoro qualificato, oggi troppo debole. Una quota significativa dei giovani calabresi è inattiva non per scelta, ma perché il mercato offre poche opportunità stabili e coerenti con i percorsi di studio. In assenza di un cambiamento strutturale a favore di imprese capaci di misurarsi con la disciplina del mercato mondiale, continueremo a formare capitale umano che prima o poi emigra, impoverendo progressivamente la quota di popolazione in età lavorativa e, quindi, il tessuto produttivo regionale».
Capitolo turismo. Nei giorni scorsi la Cittadella ha lanciato "Instant tourism", una sorta di report periodico sui flussi turistici regionali. Crede che le recenti misure adottate, come il potenziamento degli aeroporti e gli investimenti nell'accoglienza di qualità, possano incidere a dare smalto al settore?
«Le misure adottate – come il potenziamento degli aeroporti e gli investimenti nell’accoglienza – sono certamente passi nella direzione giusta. Ma da sole non sono sufficienti. Il turismo calabrese resta segnato da tre grandi criticità: la frammentazione dell’offerta, l’eccessiva stagionalità e la carenza di servizi integrati sul territorio. Per dare slancio duraturo al settore serve una strategia di più ampio respiro, che combini infrastrutture moderne con politiche mirate alla valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale, all’innalzamento della qualità dell’offerta e alla costruzione di filiere solide e interconnesse. In questo quadro, una delle strade più promettenti è puntare su nicchie specifiche, sfruttando qualche vantaggio competitivo della nostra regione. Il cicloturismo, ad esempio, è un segmento in forte crescita che ben si adatta alle caratteristiche orografiche della Calabria, e in particolare dell’altopiano della Sila. Si tratta di un turismo sostenibile, in grado di attrarre persone con elevata capacità di spesa. Tuttavia, per intercettare questa domanda servono interventi concreti e coerenti. Se la bike economy fosse davvero una priorità, dovremmo trovare in Sila strade ben tenute, prive di buche, con segnaletica efficace e senza erbacce ai bordi. E invece, percorrendo – per fare un esempio – la strada che collega Ciricilla a Buturo, si ha l’impressione che le promesse della "Ciclovia dei Parchi della Calabria" siano ancora slogan privi di contenuti reali. Un’ultima osservazione riguarda il tema dell’accoglienza. Negli anni, questo comparto ha beneficiato di numerosi interventi pubblici, ma i risultati restano modesti: la media di presenze turistiche rimane bassa rispetto ad altre regioni, facendo sì che la capacità ricettiva sia ampiamente sottoutilizzata. Questo suggerisce che, oltre a investire, occorra anche monitorare e valutare attentamente l’efficacia della spesa pubblica in ambito turistico, evitando la dispersione di risorse in progetti privi di impatto reale».
Ci spiega qual è il reale impatto del settore turistico nell'economia regionale?
«Attualmente, il turismo in senso stretto contribuisce per circa il 4,4% al valore aggiunto prodotto in Calabria, una quota significativamente inferiore rispetto a quella di molte regioni italiane a forte vocazione turistica. Anche ipotizzando uno scenario ottimale, in cui l’offerta turistica venga pienamente valorizzata, è realistico pensare che il suo contributo difficilmente potrebbe superare il 10%. Il punto, però, è un altro: anche in questo scenario migliorativo, l’impatto del turismo sulla crescita economica rimarrebbe limitato. Il settore è, infatti, caratterizzato da una produttività relativamente bassa e da un'elevata stagionalità, due fattori che tendono ad alimentare occupazione precaria, salari bassi e discontinuità lavorativa. Il turismo, dunque, può e deve crescere, ma non può essere considerato l’unica leva su cui costruire uno sviluppo economico duraturo. Illudersi che possa bastare significa ignorare le caratteristiche strutturali del settore».