In Calabria, ci sono sindaci che ogni giorno spalancano la porta del municipio senza sapere se troveranno ancora un dipendente, un tecnico, un collaboratore. Governano paesi che non hanno più scuole, uffici postali o presìdi medici. E, da poche settimane, hanno ricevuto un messaggio ancora più amaro: lo Stato italiano ha già messo nero su bianco la loro fine. Il Governo ha scelto di accompagnare lo spopolamento dei piccoli borghi “con dignità”, definendolo «irreversibile». E se il Sud si svuoterà di oltre 8 milioni di persone entro il 2080 – come previsto dai dati Istat – non sarà considerata una crisi, ma un cambiamento da gestire.

Nessun piano per invertire la rotta. Nessuna visione per trattenere chi ancora resiste. Nessuna alleanza istituzionale reale. Solo un numero iscritto in un documento strategico firmato dal ministro Tommaso Foti: i piccoli paesi sono destinati a morire. E lo faranno in silenzio. Si investirà dove qualcosa si può ancora salvare. Per gli altri, resta la gestione del tramonto. È questo, in sintesi, il messaggio. Una logica di selezione territoriale che, in una regione come la Calabria – tra le più colpite dalla crisi demografica – suona come una sentenza definitiva.

Gli amministratori locali la chiamano “eutanasia di Stato”. Non si muore più per incuria, ma per scelta pianificata. E ciò che fa più rumore, paradossalmente, è proprio il silenzio: quello della Regione, dei partiti che tacciono, delle opposizioni che non incalzano, e di una stampa nazionale che spesso volta lo sguardo altrove. In questo vuoto, restano le voci dei sindaci. Voci stanche, isolate, ma ancora capaci di dire la verità. E di gridarla, quando serve.

«Ci stanno dicendo che tutto quello che facciamo è inutile. Che stiamo lavorando per la gloria» dice Giovanna Pellicanò, sindaco di Staiti, uno dei borghi più piccoli e antichi della Calabria grecanica. Le sue parole non sono retoriche: arrivano da chi ogni giorno cerca soluzioni per non chiudere, per non sparire, mentre dall’alto si emettono sentenze. «Un governo non può limitarsi a dirti che finirai. Deve darti una soluzione. Invece c’è solo un silenzio assordante».

Il primo cittadino di Staiti denuncia la contraddizione interna al centrodestra: da un lato il presidente della Regione Calabria cerca di sostenere i borghi, dall’altro il Governo centrale – che appartiene alla stessa maggioranza – li condanna. «Non voglio che sembri un atto d'accusa verso Occhiuto. Ma lui almeno ci prova. Chi governa a Roma invece, fa l'opposto. E in questi casi ci si aspetterebbe una presa di posizione, anche forte».

Il sindaco di Roccaforte del Greco, Mimmo Penna, usa parole ancora più chirurgiche. «Ci stanno staccando la spina. È una sorta di eutanasia istituzionale. Lo spopolamento non è più una questione solo dei piccoli centri. Anche le città iniziano a svuotarsi. Tutto il Meridione è stato trascinato giù».
Entrambi i primi cittadini parlano della mancanza di visione, ma soprattutto di una mancanza di coraggio politico. Penna sottolinea come gli interventi SNAI, la famigerata Strategia Nazionale Aree Interne, avviati anni fa, avessero alimentato un barlume di fiducia nei cittadini. Oggi, quella fiducia si è trasformata in disillusione. «Avevamo creato una narrazione positiva, stavamo investendo in turismo di montagna. Ma adesso? Ci tolgono tutto, anche le porte e le finestre delle nostre case. E la stampa nazionale non dice nulla».

Giovanna Pellicanò, da parte sua, indica le strade concrete che nessuno vuole percorrere: immigrazione regolare come leva per il ripopolamento, smart working, rilancio di enti come Calabria Verde per trattenere i giovani e salvaguardare un ecosistema unico. Ma a vincere, per ora, è l’inerzia. «C’è chi continua a dire che Calabria Verde sia un carrozzone. Ma se invece lo rafforzassimo, potremmo assumere persone, salvare le montagne, tenere i ragazzi qui. E invece vanno a fare i collaboratori scolastici a Milano per 800 euro al mese».

A un certo punto, la domanda arriva in tutta la sua forza: non sarà che tutto questo è voluto? Che lo Stato - chiudendo scuole, accorpando uffici, smantellando servizi - abbia deciso da tempo di ritirarsi dai piccoli centri? «Io non sono complottista - dice la sindaco Pellicanò - ma un po’ l’idea me la sono fatta. Magari il disegno esiste. Ma anche noi, con la nostra rassegnazione, gli abbiamo dato una mano».

I numeri confermano quello che i sindaci vedono ogni giorno dalle loro finestre: la Calabria perderà il 20% della sua popolazione entro il 2050. A dirlo non è un'analisi pessimistica, ma il Piano strategico nazionale per le aree interne firmato dal Governo, che identifica lo spopolamento come una traiettoria irreversibile. Il Mezzogiorno, secondo le stime, scenderà di quasi 8 milioni di abitanti entro il 2080, e in Calabria saranno oltre 368mila in meno. Il dato più inquietante è che queste proiezioni non vengono trattate come emergenza, ma come base di partenza per ridisegnare i territori: si scelgono le aree “salvabili” e si decide di lasciare indietro le altre, accompagnandone il declino.

Anche il Ministro dell’Economia Giorgetti ha parlato di «numeri spietati», di «comunità che muoiono», ma l’azione del Governo si è fermata lì. In Calabria, secondo Svimez, un terzo della forza lavoro sparirà nei prossimi 25 anni e il PIL meridionale calerà del 32%, quasi il doppio rispetto al Centro-Nord.

Invece di rafforzare le scuole, si accorpano; invece di sostenere i presidi sanitari locali, si tagliano; invece di stabilizzare personale, si lasciano sguarniti gli uffici pubblici.
A Roccaforte, racconta il sindaco Penna, «la scuola dell’obbligo è stata chiusa nel 2018. Dopo anni di battaglie. Ed è bastata quella decisione per far andare via famiglie intere». Da lì, l’effetto domino: calo demografico, meno risorse statali, meno servizi, ulteriore emigrazione. È un circolo vizioso che nessuno tenta di spezzare.

Nel frattempo, ai sindaci tocca gestire emergenze da grandi città – incendi, dissesti, alluvioni – senza uomini, senza mezzi, senza copertura istituzionale. «I carabinieri forestali mi scrivono per ricordarmi che sono responsabile se un rogo parte da un cespuglio non rimosso. Ma chi dovrebbe pulire quelle aree? Io, da solo?» chiede Penna. E il suo non è un caso isolato.
Il paradosso è tutto qui: si trattano territori in abbandono come se fossero colpevoli della propria fragilità. E chi li governa viene lasciato solo e imputato.

Nel racconto istituzionale, i borghi sono ancora la “spina dorsale del Paese”, “la bellezza autentica”, “il cuore identitario dell’Italia”. Ma la distanza tra parole e fatti è abissale. Si celebrano convegni, si finanziano campagne di marketing territoriale, si stilano elenchi di “paesi da salvare”. Intanto, nei municipi, non ci sono ragionieri, non ci sono tecnici, non ci sono segretari comunali. A volte, non c’è nemmeno il sindaco, costretto a coprire più ruoli per garantire l’ordinaria sopravvivenza.

«A San Lorenzo – racconta Mimmo Penna – non hanno un ragioniere. Li stiamo supportando noi, con il nostro. E parliamo di Comuni a 50 chilometri di distanza». Anche Bova e Montebello Ionico, secondo il sindaco di Roccaforte, soffrono la stessa mancanza cronica di figure apicali. E così, lo Stato, dopo averli svuotati, chiede ai Comuni di accorparsi per ottimizzare. «Ma come si può parlare di fusione – si chiede la Pellicanò – quando i servizi da accorpare non esistono più? Quando i paesi sono geograficamente lontani, irraggiungibili, disgregati? È solo un altro modo per smettere di investirci».

Né la Regione, né i parlamentari locali, né le opposizioni hanno alzato una voce di peso. Nessuno ha chiesto un cambio di rotta. Nessuno ha trasformato questa strategia di desertificazione controllata in un tema politico vero.

I sindaci sono rimasti soli, con un cerino acceso in mano, responsabili di un territorio che non ha più strumenti per resistere. Eppure, tra le macerie, qualcosa resta. Non è una speranza illusa, non è ottimismo di maniera. È una forma di resistenza concreta, testarda, consapevole. «Non credo più nel ripopolamento – ammette Giovanna Pellicanò – ma credo ancora nel turismo. Se ci fossero investimenti seri, potremmo creare lavoro, rilanciare l’economia, dare senso a quello che siamo». Una visione condivisa anche da Penna, che insiste sul legame con la montagna, con la natura, con un’identità millenaria che non si può cancellare con un decreto.

Non è una difesa nostalgica. È un’idea di futuro alternativa. Una “restanza attiva”, fatta di progetti, cultura, ospitalità, connessioni. Una presenza che chiede alle istituzioni di non essere dimenticata. Che rifiuta di morire nel silenzio.